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Sono nato l’11 luglio del 1990. I miei amici non hanno mai smesso. Sono riconoscente, un angelo mi ha protetto fino a oggi. Quando ho firmato il mio primo contratto, dormivo in una macchina. Sono stato una troia. Sono stato una santa. Sono la solitudine. Sono l’eleganza. Sono la moda. Sono quello che l’ha creata con due stracci. La mia anima, il deserto dei tartari. Sono una popstar, una rockstar, un punk rockerz, uno scrittore bohémien. Sono un figlio di dio, un figlio di ma’, un ragazzo normale, un miracolato, un pessimo esempio e la più grande storia mai raccontata prima. Dentro sono io amleto c’è tutto l’immaginario di achille lauro: un mondo lirico e non convenzionale, le lucide visioni di un’anima forgiata dalla solitudine, dalla strada, dalle droghe. Come tutta la sua produzione, anche questo libro è una prova di creatività che non si lascia intrappolare in nessun modello, e non segue nessuna regola. Con il suo modo unico di usare la parola e lungo inconsueti percorsi narrativi, lauro ci guida in un viaggio psichedelico, visionario, malinconico e poetico. Ad accompagnarlo, ventitré opere di artisti contemporanei. In un attimo siamo quel bambino silenzioso che sogna di uccidere la bestia per scappare dal labirinto, siamo quel ragazzino che si affaccia timido al mondo dei grandi e che fin da subito decide di rompere le regole e infrangere le convenzioni sociali. Ma siamo anche quel giovane uomo che ce l’ha fatta, che ha costruito un impero dalla polvere, che ha sfidato la morte, ha attraversato l’inferno e ha trovato la sua strada nella musica.
Achille Lauro, al secolo Lauro De Marinis, è stato il vero mattatore dell’ultima edizione del festival di Sanremo, più per la performance che per il brano portato in concorso, “Me ne frego”.
Emerso come un personaggio stravagante, complice la tutina Gucci della prima serata, ha poi ribaltato l’immagine nella seconda serata, portando sul palco una cover di Mia Martini insieme alla cantante Annalisa; cantando un passo indietro all’artista, lasciandole campo, diretto da un direttore di orchestra donna, vestito per rappresentare figure rivoluzionarie di personaggi del passato che se ne sono “fregati” dei loro tempi a fronte di ideali più grandi, Achille Lauro ha terminato il festival piazzandosi all’ottavo posto, passando dall’essere un cantante stravagante a una figura iconica, capace di prendersi gioco del patriarcato e del machismo, più che del maschilismo, imperante. Una figura in grado di allentare pregiudizi e di puntare un riflettore sulla fluidità di genere, usando il proprio corpo come un’opera d’arte, grazie al sapiente lavoro di Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci e ideatore dei differenti stili portati sul palco dal cantante romano, con un lavoro durato ben un anno.
Ma Achille Lauro è anche l’autore di un libro, una biografia scritta dalla brava Marta Boggione per Rizzoli, edita lo scorso anno.
E noi di Feel The Book non potevamo non leggerla.
Era da un po’ di tempo che non trovavo un libro contemporaneo dotato di prefazione e appendici, già questo la dice lunga sulla cura del volume.
Alle pagine sono abbinate alcune illustrazioni a opera di artisti italiani.
E, diciamolo, è un buon prodotto: ben fatto, rifinito, e scritto bene perché scritto appunto da una ghostwriter che tanto ghost non è dal momento che il suo nome – e per fortuna – compare ovunque, a cominciare dalla prefazione.
Per il resto, essendo un libro uscito prima del Sanremo dell’anno scorso, quando Lauro portò la sua “Rolls Royce”, brano finito nell’occhio del ciclone dopo alcune puntate di Striscia la Notizia, leggerlo ora, dopo la santificazione del personaggio, lascia piuttosto basiti.
Si tratta di un’autobiografia in cui la giovane vita dell’artista viene raccontata, bene, dalla Boggione; spiegata, analizzata, quasi masticata a favore del lettore da Christian Gancitano nell’appendice dal titolo pretenzioso “I mondi di Achille Lauro”; dissacrata involontariamente dai racconti del fratello e degli amici e condita dai testi di alcune canzoni di Lauro e da alcune pagine dei suoi appunti/diari.
Ne emerge una figura totalmente diversa da quella iconica uscita dal festival di Sanremo.
Troviamo una compiacente, e compiaciuta, narrazione di una vita annoiata di un ragazzo cresciuto in un contesto alto-borghese, da cui si è allontanato a quattordici anni, andando a vivere insieme al fratello diciannovenne Federico, in arte Fet, in una casa di proprietà della famiglia a Roma. Casa che diventerà un porto di mare condiviso da amici di ben diversa estrazione sociale, che ne squatterano i locali, vivendo di espedienti e facendo uso di stupefacenti.
Circondato da ragazzi più grandi, inseriti in un contesto che li vede promoter di rave party, Lauro cresce in fretta, cercando di smarcarsi dall’etichetta di “fratello di”, tanto da diventare presto un cane sciolto che lo stesso Fet cercherà di calmare, senza riuscirci.
“Ero circondato da fantasmi, in un giro di gente grande e terribile.”
Miracolato, perché nel giro si sperimenta qualsiasi droga: cannabis, cocaina, acidi, deliranti, eroina. E i più fragili sono quelli che vi si abbandonano con maggiore frequenza, impossibile salvarsi se a nessuno importa di riconoscere i limiti superati e farti aprire gli occhi:
“Gente che si faceva in bagno senza dirti niente. Tanti lutti, debiti per droga, due pischelli si sono ammazzati. Uno morto tra le braccia della pischella. La casa di Sandro puzzava di merda di gatto, c’era uno schifo dappertutto. Gente svalvolata. Occhiaie al contrario.”
Si salvano i più scaltri, i più sgamati, quelli che si difendono spegnendo qualsiasi sentimento, come Lauro:
“Sono orgoglio ed egoismo, freddo, bugiardo, incapace di amare se non quello che ho perduto. Faccio soldi sulle spalle degli altri, me ne frego, trascuro chi mi ama. Sono figlio di un sistema alterato, inquinato, partorito da una città marcia che mi ha trasformato in quello che ho sempre odiato.
Amami senza chiedere niente in cambio.”
E niente bisogna chiedere a qualcuno che non dà, ne sa qualcosa Julia, la sua ragazza:
“La nostra storia cominciò in un giro balordo, con i miei amici ci sfondavamo e lei venne subito assorbita in questo mondo. Era il mondo degli stupefacenti, dei paradisi artificiali.”
Senza cura, senza guida.
“Non era per divertirsi, ma un modo per suggellare il nostro legame, un patto di sangue per l’eternità. Significava anche: fidati di me e lasciati andare! La droga per amore. Mai un dubbio o un ripensamento. Sparivamo nella notte, fieri della nostra incapacità di stare al mondo.”
Un amore criminale, fatto di droga e rapine:
“Non abbiamo i soldi, ce li andiamo a piglià, questa era la mia filosofia.”
E si sente ancora una certa soddisfazione nel ricordare il potere dimostrato su una creatura più fragile:
“Lanciai a Julia un foulard per coprirsi la faccia, le mostrai la pistola, lei rise come una bambola rotta. Le presi la testa, raccolsi i capelli nelle mie mani. Lei, ispirata, con le occhiaie profonde e una voce strascicata disse: «Ho paura».”
Un amore tossico, che si nutre di dolore e paura:
“Cominciammo a tradirci, a picchiarci. Io ero diventato geloso, ossessivo, non riuscivamo ad accettare la realtà, a capire che semplicemente non eravamo più noi, sempre fuori di testa.”
La paura di una madre, che vede una figlia allo sbando e chiama i carabinieri quando un giorno lui si presenta a casa.
La droga diventa un mezzo. Lauro vede amici morire e capisce che non vuole far parte di quel mondo, non dal lato debole della corda, e diventa imprenditore: la compra e ingaggia minorenni per rivederla al triplo del prezzo. Non si sporca le mani, diventa un leader, non lo spaccino del quartiere. Vuole di più.
Il suo ragionamento è semplice: “Il ragionamento era: ’Sta roba non la voglio più quindi devo trovare il modo di dedicarci il meno tempo possibile, guadagnarci il più possibile con il minor rischio possibile e soprattutto me ne ero già andato a stare da solo lontano da tutti. Volevo prendere le distanze, stare un po’ sopra, guadagnare senza sporcarmi le mani.”
È uno dei Ragazzi Madre, che diventerà il titolo del suo terzo album: cresciuto da ragazzi – il giro di suo fratello –, ne crescerà a sua volta altri. Pischelli come li chiama lui, anche perché sia Fet, il fratello, sia i suoi amici metteranno una distanza tra loro e Lauro; Fet andrà a vivere a Londra, con la sua compagna quando resterà incinta; gli altri come Frenetik si riavvicineranno solo quando lui avanzerà il desiderio di allontanarsi dal giro per dedicarsi alla musica.
“Compravo l’erba a 1.5 euro da questa importante famiglia e la rivendevo a 7. In un giorno senza aver fatto niente se non coordinare i ragazzi mi ritrovavo ad aver guadagnato ventimila euro.”
Diventa un imprenditore gestendo una formazione piramidale che gli permette i primi lussi:
“Presi una casa di 220 metri quadrati con le colonne, il camino, la Jacuzzi, una stanza solo per i bicchieri e la birra alla spina, le slot, un proiettore con schermo mega…”
La gente serve per essere sfruttata.
“Avevo messo insieme un gruppo di “bravi venditori”: squadra che vince non si cambia. Uno faceva il viaggio della speranza, “se ti beccano beccano a te”. Portava la roba in un altro posto, o meglio in altre case. La tenevamo tutta insieme all’inizio. Poi arrivava una persona che divideva e smistava.”
Perché le persone si dividono in due categorie: i deboli e i forti; i primi, carne da macello, i secondi spesso possono contare su una parvenza maledetta, ma alle spalle hanno un retaggio borghese, solido.
“Figurati che ero educatore nei centri estivi che frequentava Doms a dieci anni” dice Frenetik di sé, che ammette: “Io ho un carattere difficile, ho poca pazienza, ma lui era spocchioso, non accettava le critiche all’inizio, non gli potevi dire niente. Il mio carattere incrociava malamente il suo periodo di follia, di delirio di onnipotenza. Magari diceva una frase sgrammaticata, e io lo correggevo: «Lauro, non si dice ho un “così vuoto”, puoi dire ho un vuoto così grande o ho un grande vuoto…» lui si arrabbiava e incominciava a urlare: «Io dico e scrivo quel cazzo che mi pare!» e non la finiva più.”
Sarà lui a produrre due album di Achille Lauro: “Dio c’è” e il già citato “Ragazzi Madre”.
“Nell’ultimo periodo la produzione è passata a Doms con cui Lauro ha trovato la quadra e insieme sono progrediti dal punto di vista artistico-musicale. Tanto che ora sono un binomio inscindibile.”
Boss Doms, visto sul palco con lui, in entrambe le performance dei due Sanremo. È il chitarrista nonché attuale produttore di Lauro e gran burattinaio della loro etichetta discografica, No Face Agency.
Marta Boggione ricorda così il suo primo incontro con lui: “Intanto arriva Doms volando come un pipistrello nel corridoio, gli occhi fermi incavati, truccato, abiti teatrali alla Freddie Mercury, altro mondo, già rockstar. Saluta ma non si sofferma su niente e nessuno.”
Sarà lui che cercherà di spingere Lauro a bloccare la pubblicazione del libro, dopo essere stato messo al corrente dei contenuti.
Dopo un contratto con Roccia Music, l’etichetta di Marracash e Shablo, infatti Achille Lauro, Boss Doms e Pitch, con collaborazioni varie, tra cui quella di Frenetik aprono la propria etichetta, No Face.
“Avevo continuato a seguire altri artisti nel frattempo oltre a lui e sviluppavo le mie capacità di piccolo imprenditore e di management. Ma a quel punto mollai tutti per dedicarmi soltanto a Lauro.
Abbiamo fondato No Face io e lui, una Factory incredibile stile anni Settanta, un collettivo di artisti, musicisti, produttori “molto fighi” dirà Pitch, il DJ siculo che ha curato molte basi e che andava in tour con Lauro quando apriva i concerti di Marracash; sempre lui ricorda: “In comune avevamo la malattia di fare soldi, non tanto per averli, è proprio l’idea invece di farli che ci intriga”; poi era arrivata la partecipazione al reality show Pechino Express per Lauro e Boss Doms e la TV si accorge di loro. Pitch decide di fare un passo indietro e di lavorare nelle retrovie perché: “abbiamo deciso di puntare sul duo Lauro-Doms.”
È la vera svolta, quella che porterà al primo Sanremo, a questo libro per Rizzoli, alla collaborazione con Gucci e all’immagine ripulita per il secondo Sanremo.
“Abbiamo No Face Studio Milano e No Face Studio Roma dove realizziamo la musica.
Poi c’è la villa segreta, dove ci ritiriamo una volta all’anno per creare. Un luogo isolato e meraviglioso: un’enorme villa tra gli alberi, il bosco, la collina e il mare. Lontano dal trambusto del mondo.
Lo chiamiamo il Villaggetto, dove si partoriscono le idee.
Allestiamo studi di registrazione per i provini delle canzoni.”
Avrei voluto che la biografia si concentrasse sulla musica, sull’estetica del rap (perché il rap è la base della trap, non lo scordiamo), ma non c’è; è un profondo ego quello che, di contro, traspare dalle pagine, non una storia di redenzione, di rinascita, di ascesa sociale, ma il compiacimento di chi ha fottuto il sistema, il lavoro regolare, di chi ha ottenuto il massimo con una minima resa, sguazzando nell’illegalità e usando le persone come scale.
“La convinzione che fosse la cosa giusta: avrei avuto tutto e subito, a qualunque costo. Quella vita non faceva per me: una vita di schiavitù, al servizio di qualcuno per poi farmi insultare e puntare il dito a fine giornata; e nella mia testa ora sentivo solo le parole: «Tutto e subito, o la va o la spacca!».”
Un nuovo amore fa capolino nella vita di Lauro, un angelo, una ragazza colta che vorrebbe per lui amici diversi. Ma non avrà più fortuna rispetto a Julia.
“Ti aveva colpito la mia follia, mentre Julia la alimentava… E alla fine ne sei stata vittima e anch’io perché non mi rendevo conto di che cosa avevo tra le mani. Un gioiello. Facevo musica, pazzo, megalomane. Avevo un sacco di soldi allora, vivevo in una casa con le colonne dove tu mi leggevi Shakespeare e Anna Karenina e guardavamo Fritz Lang e Buñuel.
Gli amici erano incantati dalla tua superba bellezza.
Scopavamo ascoltando Playground love.”
Ma si è quello che si è.
“Hai paura d’amare, il bene ti paralizza perché non hai la forza di sostenerlo e lo avverti come qualcosa di fragile ed effimero che non possiede la qualità della durata se non in individui eccezionali. Tu pensi di non essere tra questi.
Il male, la cattiveria, la violenza ti vengono in aiuto come numi tutelari. Tu ringrazi dio. Meglio rimanere soli allora, suscitare timore negli altri, sentirsi vivi esultanti solo in mezzo alle urla della tua vittima.
Divento una bestia ripugnante per possederti, per sentire che ti divincoli, per il gusto di stare a vedere come fuggirai da me.
Ma tu resti, ti lasci fecondare dalla ferocia delle mie fattezze.”
Un punto a favore di questa vicenda? La canzone “La bella e la bestia”, una delle migliori di Lauro, malgrado il testo faccia sembrare la polemica su Junior Cally una barzelletta:
“Carichi la pistola e poi ti sparo in testa. Tu che hai dato sempre l’anima anche non avendo. Io che non ti ho dato mai anche potendo. Ho continuato a vendere, tu non sai niente. Mi hai regalato il cuore, io mai niente.”
E gli uomini non cambiano, proprio come la canzone di Mia Martini cantata durante la seconda sera del festival di quest’anno.
Ma la fluidità di genere? A volte si fa portatore di messaggi chi si trova al momento giusto nel posto giusto, senza capirne la profondità. Certo, tutto è funzionale: si usa e si viene usati. Quindi ben vengano certi personaggi, se portano aria in stanze asfittiche, ben vengano i team capaci di rimpolpare pensieri e visioni ben più scarni:
“Facevamo i live ed era diventata un po’ una consuetudine dopo radunare qualche ragazza e portarla da noi, o negli alberghi, ovunque. Cinquanta pischelle che finito il lavoro venivano via con noi. E così via ci ritrovavamo tutti nudi; il Secco che dipingeva sui corpi delle ragazze. Io ero il santone di ’ste fantasie sessuali di gruppo… riuscivo a coinvolgere pischelle che non avresti mai detto. Davo a tutti indicazioni su cosa dire, cosa fare, come infrangere le regole, non essere inibiti, funzionava un po’ come un gioco di ruolo, monopoli, una cosa così. Feste in pieno stile newage-newrave-dionisiaco. Fase hippie, carpe diem.
Ballavamo tutti ubriachi all’insegna del libero esercizio dell’erotismo, della fantasia e del divertimento. Da questo spirito orgasmico, di amore universale, nasce l’ondata hippie anni Settanta che comincia con Ulalala e prosegue con Amore mi, per culminare con Pour l’amour.
Stare bene con la gente, disinvolti. Sui prati a fumare marijuana, drogarsi, bere, sorridere.”
A lettura finita, sono felice di aver sfamato la mia curiosità. Saluto le provocazioni, ringrazio per le performance che hanno reso più interessante un Festival ingessato e lascio senza rimpianti il mondo di Achille Lauro dov’è. Lontano da me.
Recensione a cura di:
Editing a cura di:
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