«Allora, andiamo?» «Dove, stavolta?» «Alla fine del mondo.»
Sperling & Kupfer (4 giugno 2019), acquistabile qui.
Ci sono persone che vedi una volta e ti lasciano subito il segno, come se ti firmassero la pelle con il loro nome e si mischiassero alle tue molecole.
Bolognini Mirko, detto Bolo, è una di quelle. Con i suoi tatuaggi sbiaditi, i ricci scombinati e il sorriso più strafottente dell’universo, è entrato nella vita di Gheghe senza avvisare, un pomeriggio d’inverno, mentre fuori il cielo grigio minacciava pioggia, e da lì non è più andato via. E Gheghe non si è nemmeno resa conto di quello che stava succedendo, troppo presa a viverla, la vita, per avere paura.
Nessuno dei due aveva mai pensato che amare qualcuno potesse essere così. Così bello, così vero, così pieno di risate, di baci e così doloroso. Anche adesso che sono passati mesi dal loro addio, ogni volta che i loro sguardi s’incrociano è un cortocircuito. Come se nulla fosse cambiato e toccarsi fosse ancora inevitabile.
Entrambi sanno di essere troppo diversi per stare insieme: lui fedele da sempre soltanto alla curva dello stadio, perché è lì che ha imparato a camminare, a correre, a guidare il tifo e a prendersi a pugni; lei ai suoi libri, perché è lì che ha iniziato a sognare.
Ma l’amore non si può controllare, arriva dritto come un colpo ben assestato che non ti aspetti. Un amore inatteso e travolgente, che sa mordere la vita, come solo a vent’anni si può fare.
La lamiera dei vagoni rimbombava sotto i colpi delle aste e delle spranghe di bandiere, mentre una parte dei tifosi saliva sul regionale. I ragazzini come me guardavano esaltati quelli più grandi che legavano gli striscioni fuori dai finestrini e, da un vagone all’altro, cori e urla si rincorrevano, confusi dal vociare, sovrastati dai megafoni dei capi ultrà. Per il match di quel giorno erano stati assegnati mille biglietti ai tifosi ospiti, ma la procura non aveva fatto i conti con la realtà dei fatti: alla stazione, circa un’ora dopo, saremmo stati in più di tremila, quasi tutti senza regolare ticket d’ingresso. Mi ricordo che mi sentivo la testa leggera, un’esaltazione unica addosso e mentre il treno partiva e noi sventolavamo le bandiere fuori dai vetri, avevo pensato per la prima volta che era così che si dovevano sentire i tossici quando la dose arriva in vena.
Così vivi, così tesi e così esaltati.⇔
Non mi interrompe neanche dopo, quando le parole lasciano il posto ai gesti, ai respiri che si fanno più veloci, al silenzio rotto dai nostri cuori che battono e dallo sciabordio dell’acqua nella vasca.
Facciamo l’amore piano, questa volta, lentamente.
Per sentirci, per imprimerci addosso l’odore di noi, quello che dovremmo farci bastare durante le settimane di merda e di lontananza che stiamo attraversando.
Facciamo l’amore piano per ricordarcelo a lungo che ormai siamo questo: due cuori che non hanno più senso di esistere per davvero se non uno premuto sull’altro.⇔
Era trascorsa quasi una settima dal giorno della torta di mele e Bolo continuava a tormentarmi i pensieri, invadente, strisciando dentro di me come una malattia. Un virus che mi contagiava il sangue. Ogni volta che pensavo a lui, mi ritrovavo a ridere come una stupida, ad arrossire, e la cosa stava diventando alquanto imbarazzante. Avevo deciso di non parlarne con nessuno, nemmeno con Camille, perché sapevo benissimo che i tipi come Bolo, con le tipe come me, potevano solo provarci per divertimento, giocare a provocarmi fino ad averla vita.
E qualsiasi cosa lui volesse vincere non l’avrebbe ottenuta.⇔
«Scemo, ti sei addormentato?» mi urla una voce familiare da dentro una macchina con i finestrini aperti.
Teschio si sporge fuori dal vetro con la sigaretta in bocca, mi lancia addosso una lattina di birra.
«Sei in ritardo», mi fingo infastidito.
«Non solo ti scarrozzo, ma hai anche il coraggio di lamentarti!» Scuote la testa, mentre mi tiro su il cappuccio per asciugare i ricci bagnati, stappo la Peroni con l’apribottiglie agganciato al mio mazzo di chiavi e salgo in macchina. – Teschio e Camille
Tutto il buio dei miei giorni – qui la recensione
«Noi siamo cicatrici, siamo incendi, siamo bruciature e cenere.»
Camille ha vent’anni, ama lo stadio nelle domeniche di primavera, con le maniche corte e le bandiere mosse dal vento, e ama la sua curva, in ogni stagione. Lì salta sugli spalti, tiene il tempo con le mani: è la cosa che ama di più al mondo. È l’unico posto dove si sente davvero viva.
Ma un giorno, proprio fuori dallo stadio, la sua vita si spezza. Un’auto con a bordo un gruppo di ultras la investe.Tra di loro c’è anche lui: in curva tutti lo chiamano Teschio. Sembra il cliché del cattivo ragazzo, ricoperto di tatuaggi e risposte date solo a metà. Eppure Teschio e Camille sono come due libri uguali rilegati con copertine differenti. Due anime che non hanno fatto in tempo a parlarsi prima, a guardarsi meglio. Si sono passati accanto migliaia di volte, ma non sono mai stati davvero nello stesso posto. Lo sono ora.
Ora che il dolore si è mangiato tutto ciò che Camille era.
Teschio, però, non è disposto a lasciarla spegnere, lei che è vita, energia elettrica allo stato puro. E il tempo insieme diventa per entrambi come ossigeno dopo una lunghissima apnea. Nonostante tutto. Perché stringersi l’uno all’altra è l’unico modo che hanno per mischiarsi un po’ di dolore, un po’ di forza. E forse anche un po’ di amore.
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