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Se saprai tenere duro quando in te non c’è più nulla, allora sarai un uomo.
Alejandro Santiago, studente senior alla Oak River Tech in Arizona e quarterback della squadra di college football, sogna da sempre un futuro nella NFL. Ma la sua esistenza è oscurata da un’ombra pesante: a sedici anni ha assistito alla morte violenta del padre e ancora si incolpa per non essere riuscito a salvarlo.
Anche Max Mankiewicz, 36 anni, aspira a una carriera nella lega nazionale, come head coach. Si ritrova invece bloccato nel campionato universitario, in una piccola cittadina dell’Arizona, ad allenare una delle peggiori squadre della conference. L’ultima cosa che vorrebbe.
Così come perdere la testa per il suo giovane quarterback.
Ma non può farci nulla: l’attrazione è così forte da spingere l’uno nelle braccia dell’altro.
Solo che Max, abituato da sempre a vivere nascosto, ha alle spalle un passato che vorrebbe dimenticare, fatto di tradimento e umiliazione. Ha perso tutto già una volta per colpa di un ragazzino che giocava a football. Non vuole ripetere l’esperienza.
Quando viene lasciato da Max, Alejandro sente franare tutto il suo mondo: Max è la cosa più bella che gli sia capitata dopo tanti anni di sacrifici. Ma dopotutto è il destino che merita per aver lasciato morire suo padre.
Perciò, quando si ritrova tra le mani la possibilità concreta di poter realizzare il sogno di Max, non ci pensa due volte a rischiare tutto ciò che ha. Il suo futuro, la sua salute.
E la sua vita.
La giornalista scosse la testa. «Non capisco. È stato il football a ridurla così oppure no?» Indicò il bastone che Alejandro teneva fedelmente al suo fianco. Aveva bisogno di quello per muoversi. «No. Non è stato il football.» Poi Alejandro si protese verso il registratore e schiacciò il tasto rosso. Le sue parole iniziarono a essere registrate. «È stata tutta colpa di quel maledetto gioco chiamato amore.»
Devo confessarvi che ho letto questo libro ben due volte di seguito, e che già dalla prima volta mi sono innamorata dei personaggi e della storia che Cristina con notevole bravura ha saputo costruire in questo suo piccolo gioiellino.
Ma non è stato per niente facile scrivere questa recensione, perché non è per niente facile spiegare cosa più di altro mi ha colpito.
Potrei parlarvi della capacità dell’autrice di creare personaggi veri e realistici, o della sua bravura nel far entrare anche una lettrice completamente digiuna dell’argomento come me nel mondo del football americano; potrei raccontarvi di come si gioisca insieme ai personaggi per le loro vittorie, o di quanto li si possa odiare per la loro stoltezza e pavidità nelle scelte di vita; potrei raccontarvi di come sia chiaro il valore della “squadra” intesa come unione di forze e sentimenti che possono portare a realizzare obbiettivi apparentemente impossibili.
«Che cosa avete addosso, Rays?» Si guardarono tutti l’un l’altro, senza probabilmente comprendere bene la domanda. «Uh, la divisa, coach?» disse Zach «Sì. La maglia?» fece eco Caleb. Max sorrise e si massaggiò il mento. «No, ragazzi miei. È qualcosa di molto, molto di più. Quel nero e oro che indossate è ciò che vi rende speciali davanti agli occhi della gente di Oak River. È ciò che non vi fa più sentire un gruppo, ma una vera squadra. Una famiglia. È ciò che vi renderà eroi da stasera a tutto il resto della stagione, che vi farà camminare con orgoglio per le strade della città e i corridoi del college, perché non siete più solo un nome, adesso. Fate parte di qualcosa di più grande.» Si alzò in piedi e li fissò negli occhi, uno a uno. Marshall, Zach, Alejandro (che evitò di incrociare il suo sguardo), Ermano, Doug… «Ma la cosa più importante è un’altra. Dovete divertirvi ed essere in ogni minuto fieri di voi stessi. Perché quando uscirete dal campo, quando prima di andare a dormire vi guarderete allo specchio, non dovrete rimpiangere nulla. Dovrete sapere di aver dato tutto per la squadra. Correte, placcate, lottate assieme. Tattica? Sì. Strategia? Certo. Ma sul campo dovete dare il cuore, prima del cervello. Non trattenete le emozioni, perché è di questo che è fatto il football. Di emozioni.»
[…]
«So che fino a quando non inizierete a dimenticare i vari ‘io’ e a pensare in termini di ‘noi’ non andrete da nessuna parte. Dovete pensare come una sola entità. Dovete imparare a sacrificare l’uno in favore del tutti. E, credimi, solo così ci guadagnerete. Ciascuno di voi.»
Potrei, e in effetti l’ho anche fatto. Per ben tre volte. E per ben tre volte ho buttato tutto nel cestino e ricominciato.
Perché, parliamoci chiaro, tutte queste cose sono vere e fanno parte di questo romanzo, e sono una componente fondamentale degli ingredienti che lo rendono bello e valevole di essere letto, ma non sono ciò che mi ha catturato davvero, non sono quello che mi rimarrà dentro per sempre, quel pezzetto di ogni libro che leggiamo e che amiamo che rimane nel nostro cuore di lettore.
E allora infine l’ho riscritta, così com’è ora, e per una volta me ne sono sbattuta del “political correct” che impone di evitare spoiler quindi… siete avvisati: SE NON VOLETE SPOILER, NON LEGGETE QUESTA RECENSIONE!
Ora che vi ho avvisato, posso continuare, e voglio farlo partendo dalla seconda parte del romanzo, dopo che Alejandro crolla senza conoscenza tra le braccia di uno sconvolto Max.
Max si sentiva euforico, come non si era mai sentito in vita sua, nonostante in testa avesse quasi più coriandoli che capelli. Era tutto così perfetto, così pieno di… Ma dov’era Alejandro? Non lo notava da nessuna parte. Forse aveva cercato di raggiungere la sua famiglia in tribuna o qualche giornalista lo aveva già agguantato per un’intervista. Guardò a destra poi a sinistra. Si sentì stranamente inquieto. «Ehi, coach.» Si voltò, il cuore che saltava un battito, e vide Alejandro che si stava avvicinando dalla parte opposta del campo. Appariva sfinito, quasi devastato. Gli sorrise. «Mi chiedevo dove fosse finito il nostro capitano.» «Vi-vinto, eh?» Poi Alejandro si appoggiò a terra con un ginocchio e la mano. Dio, c’era davvero qualcosa che non andava. Max si sentì tutto d’un tratto incapace di respirare. «Jandro,» mormorò. Gli corse incontro e, proprio mentre lo circondava con le braccia, Alejandro perse i sensi svenendogli addosso. No. Ti prego, no. Max si accucciò a terra, cercando di far sdraiare il ragazzo in grembo senza lasciarlo andare.
[…]
«Va tutto bene, Jandro. Resta con me, non lasciarmi.» Lo tenne stretto a sé, cullandolo tra le braccia, fino a quando arrivarono i paramedici e glielo portarono via.
Quante volte un film o un romanzo finisce con l’estremo sacrificio di uno dei protagonisti? E in genere noi versiamo lacrime per l’eroismo di chi sacrifica la propria vita per l’amato, tanto più se si tratta di un amore a senso unico, non ricambiato. E quante volte questi atti si concludono con un risveglio strappalacrime dove intorno ad un letto d’ospedale avvengono riconciliazioni e dichiarazioni di imperituro amore, seguite da un the end che presuppone un “e vissero felici e contenti” che sicuramente acquieta i nostri romantici cuori?
Ma vi siete mai chiesti cosa succede dopo? Come sarà la vita di chi si è sacrificato? E quella di chi dovrà portare il peso del sacrificio altrui? Perché le favole sono belle, ma sono appunto questo, favole, e la vita reale raramente le rispecchia.
E questo è ciò che ho amato del romanzo di Cristina Bruni, la sua scelta di farci vedere cosa succede dopo l’estremo sacrificio.
Perché quando Alejandro si risveglia nel letto d’ospedale, non trova ad attenderlo lo sguardo amorevole di Max che gli dice che andrà tutto bene, ma trova un corpo che non lo sorreggerà mai più come prima e una mente con un’idea tutta sua su come funzionare; troverà una famiglia che lo ama ma che fatica comunque a comprendere che ormai lui sarà per sempre diverso dal figlio/fratello che hanno sempre conosciuto; troverà una realtà dove le cose che ha amato più di tutto nella vita gli saranno per sempre precluse; soprattutto troverà una realtà, là dove si aspettava di trovare solo l’oblio della morte.
La terapia sarebbe diventata una compagna costante della sua vita. Tutto questo significava una cosa sola: avrebbe dovuto dire addio al football. Per sempre. Il suo cervello non era abbastanza danneggiato da non capire, il suo cuore non abbastanza forte da sopportarlo. Alejandro aveva trascorso la prima settimana dopo questa devastante rivelazione in totale apatia (non è accaduto niente, io sto bene; non ho bisogno di nulla, neanche delle medicine) poi pian piano si era ridestato da quello stato di torpore, iniziando apparentemente a reagire alla riabilitazione e alla terapia farmacologica. Era inutile che la sua famiglia continuasse a ripetergli che pian piano si sarebbe ripreso e che dovesse essere grato a Dio quando altre persone finivano sotto un metro di terra o attaccate a una macchina per il resto della vita. Il football, dannazione! Lo aveva perduto ed era ancora vivo per rendersene ironicamente, dolorosamente conto. Lui viveva e respirava football da quando aveva cinque anni. Come potevano pretendere che rimanesse al mondo senza più giocare? Sarebbe stato solo un corpo morto che camminava. Il suo sogno più bello si era infranto per sempre e la sua vecchia vita era finita. Nelle vene sentiva solo dolore liquido. Perché non era andata secondo i piani? Perché non era morto?
E noi lo seguiamo nel suo risalire verso la vita, un cammino difficile e che inizia da molto più lontano dell’infortunio che lo ha costretto in un letto d’ospedale; un cammino che deve ripartire dal momento in cui un ragazzo di 16 anni vede il proprio padre morire sotto i suoi occhi e si autoconvince che il non essere stato in grado di salvarlo dipenda da una propria mancanza, convinzione che ne guiderà ogni passo futuro, compresa la decisione finale di sacrificare la propria vita per il bene della persona che ama.
«Tu non meriti di più.» Il pensiero di suo padre gli pizzicò la pelle, facendogli salire la bile fino alla bocca. Aveva trascorso gli ultimi anni a darsi la colpa della sua morte, fino a instillare in se stesso l’idea che non avesse diritto a niente di bello dalla vita. Doveva essere grato. Aveva già tanto per essere un figlio che era stato incapace di salvare la vita del suo genitore. Accelerò il passo. Avrebbe chiesto a Max di perdonarlo e si sarebbe accontentato di ciò che gli offriva, senza chiedere altro. Non poteva permettersi di perdere anche lui.
Ed è solo quando la strada per la rinascita è ormai imboccata che ritorna in gioco l’altra metà dell’equazione, Max, e con esso l’amore e la consapevolezza di poter affrontare il cammino con una spalla a cui appoggiarsi.
«Non ha importanza che cosa succederà, okay? Così come non ne ha se il tuo corpo o il tuo cervello non torneranno più esattamente come prima. Perché non sei più da solo. Ora ci sono io al tuo fianco e ci sarò per sempre. Perché ti amo. Non c’è altro che desideri di più se non stare assieme a te. Niente può cambiare il destino e nel tuo ci siamo ancora io e il football. E per quanto sarà difficile, per quanti ostacoli potremo mai trovare, terremo duro assieme. Niente può cambiare ciò che io provo per te o ciò che tu provi per me. Non posso garantirti che non ci saranno momenti difficili, ma qualsiasi cosa ci cadrà sulla testa la faremo funzionare. Te lo prometto. Non ti lascerò più solo.» Lo baciò di nuovo su quella cicatrice che scandiva il loro legame. Gli sorrise. «Perché io credo in noi. Lo giuro, lo giuro.»
Perché anche Max nel frattempo ha seguito un suo percorso di ritorno alla vita, una strada in salita che passando attraverso il confronto coi propri genitori e il coming out pubblico, gli ha permesso di acquisire una maggiore stabilità emotiva, che a sua volta potrà permettergli di stare al fianco del “nuovo” Jandro in quella difficile nuova dimensione di vita che il destino e le scelte di entrambi hanno creato per loro.
Lo stomaco di Max si contrasse a quelle parole. Poteva solo immaginare la rabbia e la delusione che scorreva nelle vene di Alejandro, tenute a bada dai farmaci. E ne era responsabile. “A volte mi sento come un bambino di otto anni,” gli aveva detto. Nonostante il ragazzo fosse lì tra le sue braccia, non più attaccato a un dannato macchinario, e stesse pian piano tornando alla vita, non era finita. Non sarebbe mai finita completamente. Avrebbe dovuto convivere con quella responsabilità, per sempre. Non soltanto perché Alejandro aveva messo a rischio la sua stessa salute per lui, ma anche perché gli aveva fatto credere di non essere amato nel momento in cui ne aveva più bisogno. Lo aveva lasciato da solo, facendo del male sia a lui che a se stesso, non capendo quanto entrambi avessero bisogno l’uno dell’altro. Pregò con ogni fibra del suo corpo di riuscire a essere abbastanza forte per Alejandro. L’unica cosa che contava davvero, più del football ormai. Essere il pilastro di Alejandro, aiutarlo a vincere la sua battaglia. Ogni giorno, per sempre.
Si potrebbe benissimo ribattezzare le due parti di questo romanzo come “Caduta” e “Risalita”, proprio perché nella prima parte vediamo come le scelte e le azioni di Max e soprattutto di Alejandro porteranno alla tragedia, mentre nella seconda seguiamo il cammino arduo che entrambi, sebbene in maniera differente, dovranno affrontare per risalire dal baratro in cui la vita li ha scaraventati.
Quando entrò nel suo appartamento a Oak River, Max appoggiò la schiena alla porta. Rimase a fissare ciò che aveva intorno sentendosi ancora in debito di ossigeno. Appariva tutto così vuoto e sporco, esattamente come si sentiva lui stesso. Dopo essere stato lontano dal suo appartamento per così tanti giorni, ora stentava quasi a riconoscerlo. Andò in cucina, si versò un bicchiere d’acqua e si sedette. Attese. E attese ancora. Forse, se avesse passato le settimane seguenti ad attendere, magari le cose sarebbero cambiate, si disse. «Cazzo,» abbaiò. In un gesto di stizza scaraventò il bicchiere a terra. Il rumore di vetri infranti gli rimbalzò contro la nuca. C’era acqua per terra e persino schegge, tante schegge, ma Max non se ne curò. Sarebbero rimaste lì, come l’angoscia dentro di lui, impossibile da ripulire. Si alzò di scatto e scaraventò con rabbia la sedia a terra. «Porca puttana!» Poi toccò al tavolo. Lo rovesciò e si mise a prenderlo a calci. Ancora e ancora. «Al diavolo. Al diavolo, maledizione!» gridò con tutto il fiato che aveva in corpo. Forse quello avrebbe placcato un poco la sua disperazione. Ma non bastò. Non trovò pace, né in quello né nei singhiozzi che presero a scuotere il suo corpo subito dopo. Si accasciò a terra, raccogliendo il viso tra le ginocchia e picchiando il pavimento con i pugni. Continuò a picchiare e a picchiare fino a quando il dolore fisico mitigò in parte quello dell’anima. Poi si sdraiò sul freddo pavimento, mentre un gemito basso lasciava il suo torace, la testa che sfiorava il tavolo ribaltato. «Perché lo hai fatto?» Le sue labbra si mossero appena. Disperate, bisognose. «Perché lo hai fatto per me?» Jandro aveva messo a rischio la sua salute solo per lui e ora nella migliore delle ipotesi si sarebbe portato dietro dei deficit per tutta la vita. Una verità quasi impossibile da metabolizzare. Come poteva andare avanti e vivere con quel rimorso? Come poteva accettare che Alejandro avesse deciso di sacrificare se stesso per realizzare il suo sogno? Come poteva, se invece ciò che lui aveva fatto era mettere fine alla loro storia perché non era più disposto a rischiare? Alejandro aveva messo sul tavolo la propria salute per un uomo che non si meritava un dono così prezioso, un uomo che era così vigliacco da mentire e nascondere a tutti chi era veramente. Sì sentì sporco e infimo in troppi sensi. Un dolore che non aveva mai provato nella vita gli si avviluppò in profondità, una tenebra di disperazione che non era paragonabile a nulla. Nemmeno a ciò che Bryon gli aveva fatto. Con Bryon aveva perso la capacità di lasciarsi andare, di nutrire fiducia nei confronti della gente. Si era sentito abbandonato, tradito. Ciò che invece provava in quel momento era una disperazione violenta, un cancro che si stava diffondendo alla velocità della luce, grattando via ogni frammento di se stesso. Ombre. Non vedeva nient’altro che ombre. Chiuse gli occhi. Dietro le palpebre apparve per un attimo il sorriso del suo Jandro. «Ti amo,» sussurrò al nulla.
Una cosa che ho apprezzato moltissimo è come l’autrice sia riuscita a rendere verosimile la scelta illogica e apparentemente stupida di Alejandro di sacrificare la propria vita per la carriera di Max, costruendogli un passato traumatico che ne influenza ogni azione, ogni pensiero, creandogli una visione distorta di se stesso e del proprio valore.
Un dolore acuto stava premendo contro lo sterno di Alejandro, proprio al centro. «Non sono riuscito a fare nulla per papà,» bisbigliò, le parole che lasciavano la sua lingua con fatica. «Ora ho la possibilità di fare qualcosa di buono per qualcun altro che amo. Non sbaglierò ancora.» Ingoiò a vuoto. La gola doleva, gli occhi bruciavano. Non avrebbe retto più a lungo, il mostro della colpa che scalciava dentro di lui. «Non più.» Nico lo attirò a sé. «Non devi biasimarti, fratellino. Non potevi farci nulla.» «Invece sì!» urlò. Davanti a sé gli sembrò di rivivere quel momento. Il sangue di suo padre che schizzava ovunque, il rumore della sega ancora accesa. E poi i meravigliosi occhi nocciola di Max, che mitigavano il tutto. «Non l’ho salvato, Nico, non ce l’ho fatta. Sono stato un maledetto codardo!»
Ed anche con Max ha fatto un ottimo lavoro di caratterizzazione, mostrandoci le paure e i traumi che ne condizionano le scelte.
Sospirò, massaggiandosi la radice del naso. «Tu non sei come Bryon. Non è detto che tutto debba ripetersi di nuovo. Lo so. Ma per me è difficile.» Sospirò sonoramente e si passò una mano sulla guancia. Era complicato persino parlare ad Alejandro con il cuore in mano. «Gesù, ho trentasei anni! Dovrei essere capace di lasciarmi alle spalle il…» Ma fu incapace di continuare poiché il dito freddo di Alejandro gli scivolò sulle labbra. «Noi siamo solo il prodotto del nostro vissuto, coach. Non esiste un’età in cui si smette di essere vulnerabili o in cui le ferite non sanguinano più. Hai tutto il diritto di non sentirti capace di fidarti. A vent’anni come a trentacinque o quaranta.»
In sostanza ho trovato questo romanzo molto ben curato, un intreccio costruito con maestria, una storia d’amore sofferta, dolce e amara al punto giusto, personaggi estremamente realistici e che si fanno amare per le imperfezioni umane che si portano dietro, ma anche e soprattutto per la forza e la capacità di affrontare gli ostacoli che la vita pone sulla loro strada.
[…] Se saprai confrontarti con Trionfo e Sconfitta
E trattare allo stesso modo questi due impostori.
Se riuscirai a sopportare di sentire le verità che hai detto
Distorte dai furfanti per abbindolare gli sciocchi,
O a guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte,
E piegarti a ricostruirle con i tuoi logori arnesi.Se saprai fare un solo mucchio di tutte le tue fortune
E rischiarlo in un unico lancio a testa e croce,
E perdere, e ricominciare di nuovo dal principio
senza mai far parola della tua perdita.
Se saprai serrare il tuo cuore, tendini e nervi
nel servire il tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,
E a tenere duro quando in te non c’è più nulla
Se non la Volontà che dice loro: “Tenete duro!”[…] Tua sarà la Terra e tutto ciò che è in essa,
E – quel che più conta – sarai un Uomo, figlio mio!– “Se”, Joseph R. Kipling
Recensione a cura di:
Editing:
Grazie Chibi, la tua recensione mi ha commossa <3