Un uomo e un bambino viaggiano attraverso le rovine di un mondo ridotto a cenere in direzione dell’oceano, dove forse i raggi raffreddati di un sole ormai livido cederanno un po’ di tepore e qualche barlume di vita. Trascinano con sé sulla strada tutto ciò che nel nuovo equilibrio delle cose ha ancora valore: un carrello del supermercato con quel po’ di cibo che riescono a rimediare, un telo di plastica per ripararsi dalla pioggia gelida e una pistola con cui difendersi dalle bande di predoni che battono le strade decisi a sopravvivere a ogni costo. E poi il bene più prezioso: se stessi e il loro reciproco amore.
«Guardati intorno, – disse. – Non c’è profeta nella lunga storia della terra a cui questo momento non renda giustizia. Di qualunque forma abbiate parlato, avevate ragione».
Che cosa resta quando non c’è più un dopo perché il dopo è già qui? Generazioni di scienziati, mistici e scrittori hanno offerto in risposta le loro visioni di luce e tenebra. Ci hanno prospettato inferni d’acqua e di fuoco e aldilà celesti, fini irrevocabili e nuove nascite, ci hanno variamente affascinato o repulso, rassicurato o atterrito. Nell’insuperabile creazione mccarthiana, la post-apocalisse ha il volto realistico di un padre e un figlio in viaggio su un groviglio di strade senza origine e senza meta, dentro una natura ridotta a involucro asciutto, fra le vestigia paurosamente riconoscibili di un mondo svuotato e inutile. Restano dunque, su questa strada, esseri umani condannati alla sopravvivenza, la loro quotidiana ordalia per soddisfare i bisogni insopprimibili e cancellare gli altri, la furia dell’umanità tradita e i residui, impagabili scampoli di piacere dell’essere vivi; restano i cristalli purissimi del sentimento che lega padre e figlio e delle relazioni che i due intessono fra loro e con gli altri, ridotte all’estrema essenza nella ferocia come nella tenerezza. E restano le parole, splendide, precise, molto più numerose ormai delle cose che servono a designare; la prodigiosa lingua di McCarthy elevata a canto funebre per «il sacro idioma, privato dei suoi referenti e quindi della sua realtà». Resta dell’altro, un residuo via via più cospicuo in mezzo al niente circostante: resta un bambino che porta il fuoco e un uomo che lo protegge dalle intemperie del mondo semimorto con implacabile amore, uomo e bambino tradotti in ogni Uomo e ogni Bambino, con responsabilità e ruoli che inglobano e trascendono quelli dei singoli individui. E resta, perciò, uno sguardo discreto in avanti e forse in alto, oltre a quello nostalgico voltato a rimirare il regno dell’uomo così come lo conosciamo. In questa risposta di McCarthy – epica, elegiaca, mitica, profetica, straziante, universale – resta perfino l’imprevedibile: un’affettuosa quotidianità che consola e scalda il cuore.
La Strada è un romanzo che segna. Inevitabilmente. Un romanzo che racconta di un futuro – forse non così lontano – tetro e angosciante. Proprio perché è una visione possibile, questo futuro spaventa. Ma, nonostante tutto, il libro affascina e ti conduce passo passo nei meandri delle paure celate nell’inconscio: temi di scoprirne i dettagli, ma allo stesso tempo devi sapere, in una spirale tremenda e magistrale.
La prima cosa che si nota, aprendo il libro, è la lunghezza dei periodi: frasi corte o, addirittura, cortissime e paragrafi di poche righe. Sono come diapositive di un viaggio, immagini vivide una dopo l’altra, quasi scollegate, intervallate ogni tanto da rassicuranti enunciati più tradizionali.
La scelta stilistica di costruire un romanzo in questo modo (unita alla totale assenza di punteggiatura nei dialoghi), sul momento risulta difficoltosa da leggere. Ma poco a poco, grazie comunque a una capacità linguistica fuori dal comune, in grado di tratteggiare in un attimo una scena, lo stile diventa esso stesso parte dell’atmosfera.
Al di là dei campi, verso sud, scorse il profilo di una casa e di una stalla. Oltre gli alberi, la curva di una strada. Un vialetto di erba riarsa. Edera secca lungo un muro di pietra, una cassetta delle lettere e una staccionata lungo la strada, e oltre ancora, gli alberi morti. Gelidi e silenziosi. Avvolti in una nebbia di carbone.
I periodi asciutti rendono perfettamente il senso di desolazione, di solitudine, mentre il freddo che circonda l’uomo e il bambino – chiamati sempre così – si insinua anche nel lettore, insieme a frasi toccanti che straziano l’anima.
Rimase ad ascoltare lo sgocciolio dell’acqua nei boschi. Era roccia fresca, quella. Freddo e silenzio. Le ceneri del mondo defunto trasportate qua e là nel nulla da lugubri venti terreni. Trascinate, sparpagliate, e trascinate di nuovo. Ogni cosa sganciata dal proprio ancoraggio. Sospesa nell’aria cinerea. Sostenuta da un respiro, breve e tremante. Se solo il mio cuore fosse di pietra.
L’uomo e il bambino sono soli lungo la strada, non soltanto perché questo mondo è distrutto, ma soprattutto perché gli altri esseri umani sono potenziali nemici, avversari che per sopravvivere sono disposti a derubarli se non ucciderli. La pietà del bambino per gli altri diventa una minaccia, un pericoloso esporsi.
L’unico piccolo barlume di vita è l’amore che lega il padre con il figlio, i loro dialoghi, asciutti come tutto il resto della narrazione, sono comunque permeati dall’amore e dalla fiducia. Nonostante non ce ne sia quasi, l’uomo cerca di trasmettere al bambino un po’ di speranza nel futuro, quando però egli stesso fatica a crederci e ogni tanto sogna di non essere sopravvissuto.
Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te.
Ma c’è speranza alla fine della strada? La costa che vogliono tanto raggiungere è una nuova occasione? Nel cercare questa risposta l’uomo e il bambino vivono giorno dopo giorno, passo dopo passo, sfruttando le cose rimaste dopo la catastrofe, dimenticate da chi è fuggito o lasciate da chi è morto, in un ambiente in cui nemmeno gli animali sono sopravvissuti, ricordi di un mondo che il bambino conosce solo dalle storie.
Non soffrivano più la fame ma la costa era ancora lontana. E lui sapeva che stava riponendo le proprie speranze in qualcosa che speranze non ne dava. Sperava in una schiarita quando con ogni evidenza il mondo diventava ogni giorno più buio.
Devi provare freddo, fame, paura accanto a loro, sentire la desolazione, la speranza e la mancanza di speranza. Percorrere la strada che, avanti a loro, li spinge a proseguire, costituisce la loro unica compagna. Guardare cosa è diventata l’umanità, quando la devastazione ha tirato fuori il mostro che c’è in ognuno di noi. Senza bisogno di leggerlo, tu sai fino a che punto ci si può abbassare per vivere un giorno in più; devi renderti conto di quanto sono futili tanti oggetti di cui ci circondiamo, che crediamo ci rappresentino, ma non sono altro che rottami inutili nel momento della vera necessità.
Un libro che fa tanto male, ma che va letto.
Le cose andranno meglio quando non ci sarà più nessuno.
Davvero?
Certo.
Meglio per chi?
Per tutti.
Per tutti.
Certo. Staremo tutti meglio. Respireremo più facilmente.
Buono a sapersi.
Sì, infatti. Quando ce ne saremo andati tutti qui resterà solo la morte, e anche lei avrà i giorni contati. Vagherà per la strada senza niente da fare e nessuno con cui farlo. Dirà: Dove sono finiti tutti? Ecco come andrà. E che c’è di male?
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