Un uomo sfregiato, un mistero, una donna che osa toccare le sue ferite e la sua anima.
Vuoi vedere cosa c’è sotto il ghiaccio, ragazzina?
Veronica Deanike (15 giugno 2019), acquistabile qui.
Romance contemporaneo auto conclusivo.
Alexander FitzMaurice III, Lord della camera dei Pari, discendente ed erede unico di una tra le più antiche e nobili casate d’Inghilterra.
Il viso sfregiato, che offende la bellezza algida e austera, gli ricorda, ogni giorno, il suo fallimento.
“Non sono riuscito a salvarle.”
Il tormento dell’anima lo avvolge come una coperta scura e regala, a chi lo guarda, la sinistra consapevolezza della sua pericolosità.
“Sono pronto a tutto. Quella bambina è come una figlia per me. Piccola peste… Ha trovato la chiave del mio cuore, ammesso che io ne abbia uno.”
Una donna irrompe nella sua vita.
Messicana di nascita, americana del Bronx nel temperamento.
I suoi modi irruenti, la lingua tagliente e la brutta abitudine di essere fin troppo sincera, lo irritano profondamente, ma ha bisogno di lei. Deve tenere duro e tollerarla fino a quando tutto non sarà finito. E poi, forse, prima di restituirla alla sua vecchia vita, si concederà la soddisfazione di dimostrarle che non è l’uomo che lei lo accusa di essere. Un uomo di ghiaccio.
Oh sì, quella sarebbe stata la parte più divertente.
∼Primo incontro∼
«Avanti.»
Una voce stentorea, fredda, ma in qualche modo vellutata, oltrepassò il legno massello, si propagò nella penombra del corridoio e le scivolò addosso, portandola a raddrizzare la schiena.
Era un po’ nervosa ma curiosa di conoscere, finalmente, il misterioso padrone di casa.
Guardò un istante il volto teso di sua sorella, le sorrise e, con un’energica pressione sulla maniglia, oltrepassò l’uscio.
Lo studio era ampio, in ombra, tetro. L’unica fonte di luce proveniva da una vecchia lampada da tavolo. Lui era lì, seduto dietro alla scrivania intento a scrivere. La mano correva veloce, i movimenti fluidi ed eleganti erano tipici di chi, ancora, predilige la scrittura a mano. Un elemento anacronistico che suscitò, inaspettatamente, la sua simpatia.
Jennifer stette immobile, incuriosita da quell’uomo di cui vedeva solamente un accenno di profilo e le ampie spalle.
Fece qualche passo guadagnando il centro della stanza e i suoi occhi non ebbero altro da guardare che il movimento ipnotico di quelle mani maschili. Una impugnava la penna e l’altra stazionava sul foglio col palmo ampio che mostrava un dorso disegnato da reticoli di vene blu.
Come se la sua presenza non fosse più ignorabile l’uomo, di colpo, si fermò. Un volto serio, dominato da grandi occhi incupiti dall’espressione corrucciata, uscì dall’ombra e si espose alla brutale luce della lampada che lo sovrastava.
Jennifer trattenne il fiato.
Era bellissimo.
Era orrendo.
I lineamenti virili, di una bellezza classica, deturpati da uno sfregio che tagliava il suo profilo dalla tempia fino alla bocca.
Le labbra carnose piegate in un sorriso che era come una nota stonata: il ghigno malefico frutto della sua cicatrice.
Alexander abbandonò il foglio sul tavolo, raddrizzò la postura e si sottomise all’esame sconcertante di quella ragazzina impertinente. Appoggiò la schiena al tessuto imbottito della sua poltrona, afferrò i braccioli con le mani stando attento a non stringerli, non voleva rendere evidente la sua irritazione. Quando gli occhi della donna lasciarono il volto sfregiato e, finalmente, incrociarono il suo sguardo, la inchiodò al pavimento col tono più severo di cui era capace.
«Miss Martinez, nessuno le ha mai detto che fissare la gente è segno di maleducazione?»
La vide sbattere le ciglia un paio di volte, l’espressione atterrita, ma per lui non era abbastanza.
Si alzò da quello che nel diciassettesimo secolo era stato un trono e la raggiunse al centro del suo magnifico tappeto persiano.
La osservò con attenzione, sondandola.
Gli sembrò più giovane e più minuta di quanto avesse intuito da dietro lo scrittoio. Era vestita come una matricola all’ora di ginnastica o… dopo attività ben più lussuriose. Scacciò quei pensieri inopportuni e si sforzò di ignorare i morbidi capelli spettinati, il colorito acceso, le labbra tumide e gli occhi lucidi che tanto lo indispettivano.
Si avvicinò, le offrì la mano e si presentò.
«Alexander.»
Jennifer non si era mai sentita tanto a disagio.
Ma cosa le era saltato in testa? Starsene lì a guardarlo come fosse un’opera d’arte in mezzo a quel museo degli orrori che era la sua casa.
Gli strinse la mano e quel contatto non migliorò le cose.
Gli arrivava alle spalle e il suo palmo era almeno tre volte più piccolo di quello di lui.
«Jennifer» si maledisse per l’inclinazione della sua voce.
«Come dice?»
Persino in quello stato di prostrazione era capace di cogliere la sua presa in giro. Tuttavia le servì per riacquistare forza e tenere testa a quell’uomo che, ne era certa, si stava facendo beffe di lei.
«Jennifer» rimarcò con più decisione.
Aumentò la stretta in un’esibizione di forza che sperò non risultasse più ridicola che apprezzabile.
«La prego, si accomodi.»
Alexander, da perfetto gentiluomo qual era, scostò la sedia e la invitò a sedersi. Lo divertivano i suoi movimenti goffi, di sicuro poco avvezzi a certe galanterie e men che meno al rigido galateo al quale lui era stato sottoposto fin da piccolo.
Fece il giro del tavolo e si accomodò al suo posto. Incrociò le mani sul ripiano lucido e si schiarì la voce.
«Allora, Miss Martinez, Isabelle le ha illustrato la
situazione?»
«Sì, certo.»
«Poche regole ma inviolabili. Nessuna notizia deve trapelare da queste mura; se le offerte dei giornalisti dovessero essere lusinghiere, venga da me, saprò essere più convincente.»
Jennifer impiegò qualche istante a registrare il senso di quelle affermazioni. Indignata, saltò su dalla sedia come se una serpe l’avesse appena morsa.
Alexander la guardò confuso e un po’ irritato.
«Lord FitzMaurice, sono senza parole. Io me ne sto qui a
torturarmi le mani e la coscienza per paura di averla in qualche modo offesa e lei, senza alcun rimorso, prima ancora di conoscermi dà per scontato che possa vendere la storia di quella piccola creatura a chissà quale sciacallo? Perdoni la mia franchezza ma è inaccettabile. Anzi… non glielo permetto proprio. Dimenticavo che per voi europei, con o senza gonna, siamo solo sporchi messicani prezzolati.»
Alexander rimase apparentemente distaccato.
La ragazzina aveva fegato, doveva riconoscerlo.
«Si sieda e si calmi e soprattutto non si permetta mai più di darmi del razzista.»
«E lei non scambi la mia sensibilità per inettitudine, non sono disposta a farmi dare della disonesta da nessuno, a prescindere dal cognome che porta.»
Alexander sentì la cicatrice tirare.
Era forse un sorriso quello che minacciava di rovinargli la reputazione?
«Questa conversazione è iniziata nel modo più sbagliato possibile.»
«Lo credo anche io» gli rispose a muso duro.
Alexander si alzò dalla sedia e le girò attorno.
Si prese tutto il tempo per osservarla e, a quanto vedeva, per farla innervosire.
La cosa più importante era nasconderle la sua espressione divertita.
La fissò con insistenza: era carina, niente di più.
Perché catturava la sua attenzione?
Aveva carattere da vendere, questo era chiaro. Nessuno osava contrariarlo, tanto meno sfidarlo apertamente. Forse la permanenza della piccola Martinez sarebbe stata un simpatico diversivo ai momenti difficili che lo attendevano.
Una risata ogni tanto non avrebbe potuto fargli che bene.
Jennifer se ne stava lì, immobile, a farsi analizzare come un esperimento riuscito male.
Maledizione a lei e alla circolazione che le aveva paralizzato il corpo.
«Com’è andato il suo primo giorno con Marisol?»
«Benissimo» fu la risposta piccata.
«Speravo in qualche dettaglio.»
Jennifer non si fece ingannare dal finto tono accomodante e dalla sapiente scelta del lessico, condiscendente da far schifo.
«Marisol è adorabile. Intelligente e arguta. La spensieratezza che ostenta è solo una protezione, un meccanismo di difesa per raggiungere l’amore di chi, ora, si occupa di lei.»
«Non sarà facile farne una FitzMaurice. L’hanno cresciuta come una selvaggia.»
Jennifer storse il naso davanti a quella che le parve una sconcertante mancanza di sensibilità.
«Tutti i bambini nascono selvaggi, per fortuna. Devono
vivere la loro età, non diventare adulti in miniatura né tantomeno l’impeccabile stendardo di una famiglia.»
Alexander tornò a sedersi sulla poltrona.
La fissò intensamente prima di rimetterla al suo posto.
«Sbaglio o nel suo tono c’è della disapprovazione? Voglio sia chiaro che non permetto a nessuno di mettere in discussione la mia persona e tanto meno a chi lavora per me.»
Jennifer lo guardò con altrettanta acredine.
«A voler essere puntigliosa io non lavoro per lei. Sto facendo un favore a mia sorella e, adesso che la conosco, credo anche alla piccola. Metta da parte precetti e retaggi di un’educazione del passato e provi a passare del tempo con sua nipote, la abbracci, la ami: non ha bisogno d’ altro.»
Jennifer osservò la sua espressione che si rabbuiava, era diventata sinistra, pericolosa. Capì istantaneamente che aveva esagerato. L’uomo la guardò con malcelata superiorità e…
qualcos’altro. Piantò le mani sulla superficie dello scrittoio e si sporse verso lei: per un momento pensò potesse saltarle addosso.
«Sa perché non mi arrabbio mai, Miss Martinez?»
Doveva rispondergli?
Optò saggiamente per il silenzio.
«Glielo dico io: da arrabbiato sono davvero un brutto spettacolo. Lo rammenti e rammenti pure che, in questo momento, ci sono pericolosamente vicino. Sono stato chiaro?»
Jennifer annuì, perdendo buona parte della sua baldanza.
«Adesso esca. La nostra conversazione finisce qui.»
A Jennifer venne da piangere, come quando da piccola le dicevano che era stata cattiva e lei ci teneva tanto ad essere sempre una brava bambina, a stare nel giusto, a non ferire gli altri. Si alzò dalla sedia senza fare rumore, pensando che anche quello potesse essere, in quel momento, un affronto o peggio un’offesa. Il suo cervello lavorava velocemente per trovare qualcosa da dire, qualcosa che stemperasse quella tensione assurda e insostenibile.
«Lord FitzMaurice?» lo chiamò leggera come un soffio, mentre lui già scriveva.
«Cosa c’è ancora?»
Jennifer prese un lungo respiro e con esso tutto il coraggio di cui era dotata.
«Mi creda quando le dico che mi farei tagliare la lingua prima di tradirvi entrambi.»
Alexander sollevò lo sguardo dagli incartamenti e lo fissò sulla ragazza.
Le credeva ma dalla sua bocca non uscirono parole di ringraziamento; le accuse che gli aveva mosso bruciavano ancora troppo.
Lui non dava spiegazioni.
Mai.
A nessuno.
Ma in quel momento cedette all’irrefrenabile impulso di farlo con un’estranea.
«Avrei dato e darei la vita per quella bambina. Ne porto i segni sulla faccia. Lei non sa niente di me, perciò non osi mai più darmi lezioni di vita, ragazzina. E adesso vada.»
Jennifer uscì dalla stanza, si chiuse la porta alle spalle e ci si appoggiò con la schiena.
Le mani le tremavano.
L’anima, pure.
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