In principio è il candore dei dodici anni. Quando pensi che nessuno a cui vuoi bene possa farti del male. Poi succede l’impensabile. Un atto di violenza feroce. E Roxane, annientata dalla vergogna, incapace di parlare o chiedere aiuto, comincia a mangiare, mangiare, mangiare. A barricarsi in un corpo che diventa ogni giorno piú inespugnabile dagli sguardi maschili, una fortezza dove nessuno sarà piú capace di raggiungerla. Quella di Roxane Gay è la storia di un desiderio insaziabile, di battaglie sempre perse contro un corpo ammutinato, di una lotta contro una cultura che spinge le donne a odiarsi se non corrispondono alle aspettative. Ma la fame di Roxane Gay è anche il motore della sua fenomenale spinta creativa e della sua sulfurea personalità. Oggi è un’intellettuale, attivista e scrittrice, una delle voci piú rispettate della sua generazione. Soprattutto una donna che ha trovato le parole per raccontare la propria storia.
Roxane non ha ancora quarantanni e non è robusta, né grossa, né grassa. Come ci informa lei stessa dalle pagine del suo Fame, Storia del mio corpo, è patologicamente obesa. Lo rivela subito al lettore, quasi a voler mettere in chiaro la propria condizione di donna che occupa spazio e giudicata negativamente per questo.
Ma Fame è molto di più di un saggio, come è stato classificato, o un libro di denuncia sui disordini alimentali; si tratta di un memoir militante, un’autobiografia e, in quanto tale, mostra la vita dell’autrice senza nessun altro filtro, se non quello che lei stessa ha voluto concedere al proprio racconto. Ed è qui, nel taglio dato a una vicenda che tocca da lontano molti e da vicino alcuni, che sta tutta l’originalità di Fame. Un libro duro e ingiusto, come la violenza che Roxane ha subito da bambina e non ha raccontato in famiglia, né mai denunciato. Il segreto, allora, è diventato colpa e il suo corpo un mezzo di espiazione vivente: dopo lo stupro, Roxane continua a cercare il ragazzo che l’ha data in pasto ai suoi amici e, quando si trasferisce, non vede un nuovo inizio: è il momento per lasciarsi andare del tutto, per strozzare quell’urlo muto con il cibo e ingrassare, espandersi, in modo che il corpo sia preparato, forte e respingente. Se rendi il corpo non appetibile, pensa Roxane, nessuno può farti del male; se non sei carina, puoi ancora essere salva.
Persino in giovane età sapevo che essere grasse significava essere indesiderabili per gli uomini, essere al di sotto del loro disprezzo […]. Questo è ciò che insegnano alla maggior parte delle ragazze – dovremmo essere snelle e piccole. Non dobbiamo occupare troppo spazio. Dobbiamo essere viste e non ascoltate, e se ci vedono, dovremmo essere gradevoli per gli uomini e adeguate per la società.
Gli anni passano, lei studia fuori e, ogni raro ritorno a casa, mostra alla famiglia che il disordine alimentare non è sotto contro controllo, come lei sostiene rassicurandoli a distanza. La madre non si arrende: prova a iscriverla a campi estivi per ragazzi in sovrappeso, le fa seguire una dieta, insieme incontrano medici, e quando Roxane torna al campus i risultati sono visibili a tutti. Tanto visibili da sentirsi esposta, e desiderare di annullarli, cosa che lei fa di volta in volta, andando contro le regole della sua casa d’origine, dove il cibo spazzatura non è mai approdato: sia i genitori sia i fratelli sono magri, atletici; sono haitiani-americani, neri, benestanti, colti. E Roxane nelle scuole della buona società che frequenta si trova a vivere la marginalità di una situazione che la vede una minoranza ovunque lei vada: nera, colta, benestante e… obesa.
Situazione che non può non collassare e, in piena negazione di sé, Roxane lascia la prestigiosa università che frequenta e si perde. I genitori la perdono. Lei raggiunge una persona “conosciuta” attraverso la Rete e inizia un percorso di annientamento fatto di rapporti fallimentari e permissioni all’uso di sé. Mangia, Roxane, e distrugge quel corpo già provato, facendogli male, facendosi male, accettando relazioni pericolose, impossibili, prive di amore con uomini e donne, perché il trauma che ha vissuto, quello che le è stato fatto quando aveva dodici anni, è vivo, pulsa, si nutre dei suoi demoni, della cattiveria con cui lei si ferisce. Disprezzandosi Roxane vuole disprezzo, lo cerca negli altri, lo corteggia, se ne nutre come il cibo di cui sente il bisogno. Per poi stare male, analizzare ogni pecca, disagio, sguardo.
Fame è una lettura difficile e la sua difficoltà è direttamente proporzionale alla scrittura cristallina dell’autrice, che non gira attorno a un concetto, ma lo svela e lo aggredisce. È un libro, però, che chiede di essere letto e fa male, perché tutto quello che vi è scritto è doloroso, assurdo, e suona come un’ammissione senza perdono. Non c’è speranza, neanche quando lei prova a tirarla in ballo. Non c’è fede in un miglioramento.
C’è un percorso di dolore e distruzione che avviluppa il lettore e lo tira giù, pagina dopo pagina, fino al finale, aperto come la vita che Roxane ha, e noi con lei, davanti.
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