Dopo più di dieci anni di assenza, Mario torna nel luogo in cui è cresciuto: la Reggia di Caserta. Figlio del Capitano, storico custode del parco, la Reggia che conosce non è quella dei turisti, maestosa e spettacolare, ma un triangolo di terra con un’aia al centro, chiuso tra gli alberi del Bosco Vecchio e le acque della gigantesca Peschiera. Al di là di questo microcosmo di vasche, statue e arbusti, si intuisce la vita della città, della gente che resta fuori quando, alla sera, il Capitano richiude il cancello. È proprio lì che Mario conserva il suo ricordo più vivo: quello della madre Anna, che un giorno se n’è andata senza dire nulla, lasciando tutti indietro a fare i conti con la sua mancanza. Convinto che il motivo della fuga si trovi ancora all’interno del parco, Mario lo cerca senza sosta, sulle tracce di un passato che gli sfugge eppure non smette di richiamarlo a sé. Ma la verità non si può riconoscere finché non si è pronti ad accoglierla: per fare posto alle cose che non ha mai voluto vedere, Mario dovrà rimettere in discussione tutte le definizioni che reggono il suo mondo – quella di madre, quella di figlio, quella di colpa. La scrittura di Giusi Marchetta è limpida e pungente, capace di creare un universo senza mai invaderlo. Con mano sicura ci indica i dettagli e ci invita a trattenerli, dando vita a un romanzo suggestivo e profondo che trasforma, come d’incanto, le nostre certezze in possibilità.
Tutto mi aveva predisposto alla lettura di “Dove sei stata” di Giusi Marchetta: la cover evocativa, la trama interessante, la curiosità verso la scrittrice, che ricordavo ai tempi del suo esordio con la raccolta di racconti “Dai un bacio a chi vuoi tu” pubblicato da Terre di Mezzo.
Non vedevo l’ora di conoscere il protagonista, Mario, avvocato trentenne figlio di uno dei custodi del parco della Reggia di Caserta, chiamato da tutti Il Capitano. Una parte della Reggia riservato al personale di servizio che vive e lavora parallelamente ai ritmi scanditi dai turisti che, ogni giorno, la animano. Uno spaccato di territorio che è poco più di un triangolo di bosco con vasche, statue e un’aia al centro che prende vita quando il cancello si chiude, sbarrando l’accesso alle comitive.
La vita di Mario è altrove: ha un lavoro, sebbene sia uno dei tanti dipendenti di un noto studio legale torinese e d’inverno ruba la stufetta alla segretaria per non morire di freddo nella stanza che gli hanno destinato; ha una fidanzata, Camilla, che ama di un amore tiepido ma -sa- che durerà; un gatto che si è ritrovato tra i piedi e di cui prova a prendersi cura. Quando un giorno viene avvisato di un incidente occorso al Capitano, Mario decide di tornare a casa, in quella casa da cui era andato via anni prima, infestata dal ricordo della madre Anna che, un giorno, semplicemente è andata via senza una parola. Senza cercarlo più. Una volta lì, tra l’incompatibilità atavica con il padre, la necessità di fornirgli un aiuto pratico, assumendo una delle ospiti di una struttura religiosa che accoglie orfani e donne maltrattate, e i ricordi d’infanzia che riemergono e si annodano ai suoi attacchi di panico notturno, Mario proverà a risolvere il conflitto che si porta dietro, cercando la verità sulla fuga della madre.
L’incipit è folgorante e un’atmosfera di mistero ammanta i primi capitoli, la scrittura dell’autrice è raffinata, ma il romanzo non mi ha colpito e la sensazione predominante a fine lettura è stata quella di una stanchezza consumata senza bellezza.
I continui salti temporali che integrano il presente con il passato dell’infanzia di Mario non sembrano amalgamati a dovere, dando alla narrazione un andamento singhiozzante che forza il lettore a prendersi una pausa dietro l’altra.
Il secondo filone narrativo poi, la consulenza gratuita richiesta a Mario da una suora, ex amica di sua madre, nel difficile caso di affido di un bambino la cui famiglia è camorrista, sembra essere messa lì per forzare una riflessione su responsabilità e senso di colpa, ma strozza ancora di più il nucleo narrativo centrale che, spesso, manca di forza. Di Anna, la cui assenza da sola avrebbe potuto reggere l’intero impianto narrativo, sappiamo poco e la verità, pur sciolta nel finale, non è così potente da definire l’architettura di una grande saga familiare né da regalare al lettore la catarsi dopo aver inghiottito un grumo di dolore. Siamo davanti a una storia senza picchi e senza memoria, e il rischio è proprio quello di giungere all’ultima pagina del romanzo senza ricordare i personaggi.
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