«Tu sei la cosa più bella che c’è. In te tutto è perfetto, crocchetta, ogni dettaglio. Sei l’ideale platonico di te stessa. Ogni tuo graffio, ogni piccola spellatura è l’inimitabile elaborazione della tua bellezza e del tuo essere selvaggia. Sei come una naiade, come una ragazza cresciuta dai lupi. Tu sei la mia cosa numinosa in un mondo profano, di tenebra.» Mio assoluto amore racconta l’adorazione di un padre per la figlia, un sentimento da lei ricambiato in maniera cupa e alternante. Pressoché isolati in una vecchia casa di legno, in una parte selvaggia della California, eccoli, loro due, meravigliosi e contorti, unici. Il padre violento e sboccato, maniaco delle armi, e sua figlia quattordicenne, Turtle, incapace di parlare alle sue compagne di classe, muta per troppo amore filiale, sopraffatta dal dolore e dalla passione per un uomo che non le ha mai comprato un vestito, che le ha insegnato soltanto a cacciare, uccidere gli animali, scuoiarli, curarsi da sola e che, per anni, le ha sussurrato all’orecchio di un mondo là fuori sfinito, chiuso nella morsa di un consumismo impazzito, un mondo che loro devono rifiutare, sradicare dalle loro menti, odiare insieme. Mio assoluto amore di Gabriel Tallent è stato segnalato come il miglior debutto americano del 2017, ha subito raggiunto i primi posti della classifica del “New York Times” e Stephen King lo ha definito un capolavoro precisando di non esagerare – tutte cose vere senza dubbio, che non dicono però la grazia e la forza di questo esordio: una storia mozzafiato, una bellissima trama comandata da uno stile straordinario. È un libro concepito in due grandi parti, come la navata e l’abside di una chiesa, discesa all’inferno e risalita di una ragazza prima prigioniera della psiche e del suo amore ossessivo per il padre, poi fuggitiva nella natura e nel corpo, in una storia incalzante, vorticosa, selvaggia e intima. È in questo arco teso allo spasimo che il linguaggio di Mio assoluto amore si attorciglia ai piedi del lettore come una radice infestante e lo avvolge dal basso verso l’alto, con la sua battagliera cupezza di situazioni e oltraggi e disagi e speranze e crudeltà.
Sono indegna, è una precisazione doverosa.
Sono indegna di recensire questo libro perché ho la netta sensazione che non riuscirò a trasmettervi il terremoto di emozioni con cui mi ha travolta, parola dopo parola, frase dopo frase. Quindi (pessima strategia mettere le mani avanti, lo so) perdonatemi sin da ora: vado di pancia.
La prima cosa che tengo a precisare è che “Mio amore assoluto” è un libro difficile: l’argomento attorno a cui ruota – incesto/abuso di minore – è una delle colpe più riprovevoli, brutali, ignobili di cui può macchiarsi l’uomo. Ma se mi fermassi solo a questo, non renderei giustizia a ogni singola, dannata parola che Tallent ha avuto il coraggio e la genialità di mettere nero su bianco: perché più riprovevole dell’incesto, dell’abuso di un minore, più ancora della crudeltà e della violenza, quello che colpisce, che stende, che devasta, è che le azioni descritte (mostrate) e le parole messe in bocca ai personaggi diventano macabramente giuste, drammaticamente oneste.
E qui non posso che inchinarmi: la trama ha una struttura inattaccabile, è un mosaico perfetto in cui nessun tassello è fuori posto, uno spettacolo in due atti intervallato da una boccata d’ossigeno che lascia sospesi, increduli. La narrazione, in terza persona presente, scorre mostrandoci un susseguirsi di immagini perfettamente chiare e terrificanti; la pellicola avanza con un ritmo incalzante, punta la lente di ingrandimento su dettagli che potrebbero apparire banali ma che, al contrario, accentuano la crudezza e la tragicità degli avvenimenti; si ferma all’improvviso, costringendo il lettore a stropicciare gli occhi e a chiedersi «e adesso?» per esibire altro – la natura, il buio, l’oscurità interiore – e riprendere poi a correre dietro a una follia che non conosce riposo, e che conduce fino all’epilogo.
Turtle – alias Julie Alveston, alias “crocchetta” – è una ragazzina di quattordici anni, la cui giovane vita è stata plasmata dalla violenza, dalla trascuratezza, dal timore reverenziale verso un padre enorme, bellissimo, che riempie ogni pagina con il suo immensoamore per la figlia. Turtle non ha voce di fronte a suo padre, non esprime quello che è: è tutta presa a giocare un’eterna partita a scacchi per anticipare le mosse di lui, l’unica strategia che conosce per sopravvivere.Tra di loro c’è una routine di gesti, di azioni, che, parola dopo parola, diventa tagliente e dolorosa.
Al mattino, Martin esce dalla sua stanza allacciandosi i Levi’s. Turtle apre il frigo e tira fuori un cartone di uova e una birra. Gli lancia la birra. Lui appoggia il collo della bottiglia al bordo del bancone, con un colpo fa saltare il tappo e resta in piedi a bere. La camicia di flanella è aperta sul petto. I muscoli addominali si contraggono a ogni sorso. Turtle rompe le uova contro il bancone e tenendole in equilibrio allarga la crepa e si versa il contenuto in bocca, poi getta i gusci nel secchio da cinque galloni del compost.
A volte la mente di Turtle osa azzardare il proposito di andarsene, di scappare lontano, dove lui non possa più trovarla, e l’amore che prova per lui si trasforma in odio: ma quel pensiero evapora dietro il senso di colpa, dietro alla reale incapacità di allontanarsi da chi dichiara e dimostra di amarla tanto profondamente e dalla responsabilità, immensa e pesante, di essere la sua unica ragione di vita.
«Lo sai crocchetta? Lo sai cosa significhi per me? Tu mi salvi la vita tutte le mattine quando ti alzi ed esci dal letto. Sento i tuoi passettini che scendono le scale e penso, eccola, la mia ragazza, è per lei che vivo.»
Turtle si trova ingabbiata in una prigione dalla quale non sembra esistere via d’uscita. Ma Martin, questo padre crudele, terribile, brutale, la ama davvero.Frase dopo frase, pagina dopo pagina, Martin, che ci beffeggia con una cultura superiore alla media, una cultura stonata nel contesto di povertà materiale ed emotiva in cui la sua casa rischia di cadere a pezzi, non fa che preparare Turtle a essere migliore di lui, a superarlo; le affida gli strumenti per difendersi, le insegna – con la violenza, il timore, e quell’amore distorto e malato – a sopravvivere in qualsiasi situazione, a trascendere sé stessa. Per farlo costruisce un mondo solo “loro”, in cui entrambi imparano a bastarsi, in cui non hanno bisogno della società civile, con le sue norme e la sua moralità: un mondo fatto di armi, di istinti, di paura. Un mondo dove quella stessa paura legata all’istinto diventa la molla per dare il meglio di sé.
Martin le sussurra: «Non pensare, chiudi il cervello nel cestino del pranzo e vai a lavorare. Non pensare. Mira e basta. Spara e basta».
«Ti tocca, cara. Amore mio. Mio assoluto amore. Ti tocca. Prenditi il tempo che ti serve, e fallo come si deve; chiudi il cervello nel cestino del pranzo e rilassa il corpo; premi il grilletto senza inclinare, fai in modo che tutto si svolga dolcemente; tieni conto del rinculo e poi dimenticati tutto; non allentare l’attenzione se non un secondo dopo aver sparato.»
Ma la vita non può essere solo questo, Martin lo sa: Turtle è destinata a incontrare quella società civile da cui il padre vorrebbe tenerla a distanza, quella che ripugna certi tipi di “comportamenti”, quella che, sicuramente, li costringerà a stare lontani. E quando accade, Turtle smette, impercettibilmente, di essere quella bambina che conosce, per diventare un’altra, un individuo da rivendicare come suo, con qualunque mezzo.
«Mia» dice lui con voce rotta. Lei afferra manciate di fango, cerca di sottrarsi al peso dell’anfibio e non ci riesce. Non può permettergli di colpirla ancora con l’attizzatoio, non può. Il suo corpo è invaso dal dolore. È l’unica cosa a cui riesce a pensare, e nella sua testa continua a ripetersela – no, no, no, no – e la sua impotenza è l’unica cosa, le chiude completamente il cervello in un panico irrazionale, e a lui sembra non importare nemmeno, è piegato su di lei e preme col tallone. «Tu sei mia» dice, «stronzetta, sei mia.»
Turtle, però, incontra il mondo, comincia a capire che c’è qualcosa che non va in lei, in lui, in loro. Qualcosa che non torna. Il dubbio che quello che stia accadendo non sia giusto si annida nei suoi pensieri, come un tarlo in una solida trave.
«Mi fido» dice lei, e pensa: sei duro con me, ma mi vuoi bene, anche, e io ho bisogno di questa durezza. Ho bisogno che tu sia duro con me, perché da sola non ce la faccio e tu mi fai fare quello che voglio fare, ma che da sola non riesco a fare; però, però … a volte te ne freghi; c’è qualcosa in te, qualcosa che se ne frega di tutto, qualcosa di quasi… non so, non ne sono sicura, ma so che c’è.
Turtle, che si nasconde dietro una corazza – da cui il nome turtle: tartaruga – sembra liberarsi, lentamente, degli strati più duri, sembra trasformarsi, piano piano, in quella Julie Alveston capace di comunicare con gli altri, di provare sentimenti. Di innamorarsi. Rivela qualcosa di più di sé, teme il giudizio riprovevole della collettività, tenta disperatamente di difendere suo padre. Ma in cuor suo, sa… sa che Martin è imperdonabile. E sa anche di essere più forte.
«Sì» dice lei, e pensa: tu hai fiducia nella tua disciplina e nel tuo coraggio e non ci rinuncerai mai e non li abbandonerai e sarai più forte, coraggiosa e dura, e non ti siederai mai come si siede lui, a guardare la tua vita come la guarda lui, sarai forte e pura e fredda per il resto della tua maledetta vita e queste sono lezioni che non dimenticherai mai.
Per quanto tempo può andare avanti quella sceneggiata? Quanto è vicino il momento in cui ci sarà la resa dei conti? Quanto dolore le costerà recidere l’insano legame con suo padre e diventare quell’individuo che lo stesso Martin ha coltivato, giorno dopo giorno, con tanta crudele e sadica cura?
Perché c’è un limite, persino alle bugie che siamo disposti a raccontarci. C’è un limite alla sofferenza che possiamo sopportare.
Senza entrare nel merito della trama, che lascio a voi la sorpresa, il piacere e l’onore di assaporare, quel che posso dire è che “Mio assoluto amore”è un testo difficile da comprendere, difficile da digerire, difficile da leggere eppure così difficile da non leggere. Martin e Turtle sono personaggi ispirati, incredibili, raccapriccianti nella loro crudezza, e indimenticabili, per motivi diversi. Martin è l’uomo segnato dalla violenza che a sua volta ha subito, è incapace di perdonarsi, di dimostrare amore, eppure è innamorato, in modo distorto e folle, di sua figlia, tanto da volere per lei qualcosa di diverso, senza comprendere di non aver spezzato il circolo vizioso del suo passato. Turtle è una ragazzina tosta, e allo stesso tempo spaventata e sottomessa all’unico pericolo per la sua vita: Martin. Eppure sotto la superficie delle sue lunghe gambe, delle braccia magre e del viso affilato, la sua forza vibra in attesa di potersi esprimere e di renderle finalmente giustizia.
I personaggi di contorno sono gemme incastonate perfettamente nella trama, ognuna funzionale al percorso dei protagonisti. I dialoghi seminano indizi nei rovi di spine della loro storia, sono ruvidi, diretti e senza fronzoli; le descrizioni degli ambienti, della natura, dei sapori e dei profumi rendono la lettura tridimensionale, incantano e spezzano il ritmo serrato della narrazione, regalando suggestivi e poetici momenti di respiro.
Ma più di tutto, Turtle: se questo romanzo suscita una riflessione toccante sull’abuso e sulla psicologia della vittima e del suo carnefice, è anche un viaggio di speranza, una battaglia per tentare di redimere un’anima spezzata e mai sconfitta, la storia di una Eroina dei nostri tempi.
Martin ha provato a dirtelo, ha provato a dirti che un giorno avresti dovuto diventare qualcosa di più di una troietta spaventata con una buona mira, che un giorno avresti dovuto trovare in te una determinazione assoluta, che avresti dovuto combattere come un cazzo di angelo caduto su questa cazzo di terra, con un cuore assoluto, e tu non ci sei mai arrivata. Esitavi e tergiversavi, fino alla fine.
Finito. Mi asciugo le lacrime, lacrime di commozione che ho versato solo alla fine, alzo lo sguardo dal PC e rimango così, a fissare il soffitto per un tempo indefinito, stralunata, come ubriaca o come se mi avessero scomposta pezzo per pezzo: muscoli, cervello, ossa, cuore… per poi rimontarmi con un pezzo in più, uno che non sapevo di avere, ma che ora è mio, e che preme e si gonfia sotto lo sterno, e non è semplice magone, ve lo assicuro, è altro: è stupore, è meraviglia, è incanto. E resto lì a chiedermi come sia possibile non riuscire a trovare dentro di me orrore e raccapriccio, ovvero le emozioni che secondo logica e morale sarebbe corretto provare. Perché questo libro, credetemi, riesce a essere stupendo e agghiacciante allo stesso tempo. Perché leggerlo ti fa un male cane e un bene nell’anima che non ti aspetteresti. Perché ti svuota di tutto per poi riempirti di nuovo, lasciandoti molto più ricco e completo di prima. Non so se questo ne faccia un capolavoro, non oso dirlo, soprattutto ora che mi sento così piccina, nell’atto di provare a scriverne la recensione. Posso solo consigliare il lettore maturo e consapevole di non lasciarselo sfuggire, a causa di pregiudizi o paure o blocchi mentali ed emotivi. Conoscerete così due personaggi indimenticabili, un padre e una figlia, e coglierete la forza annichilente dell’amore totale, assoluto, che dà il titolo al romanzo: un sentimento abnorme che ha l’effetto di una corda al collo, che stringe e non ti lascia respirare; una prigione, una gabbia dalla quale si può fuggire in pochi modi. Padre e figlia, carnefice e vittima, o forse no, perché non li si può inserire in schemi precostituiti, troppe sono le sfaccettature delle loro rispettive personalità e dei sentimenti che li percuotono e quasi li obbligano a mettersi alla prova e ferirsi l’un l’altra, per poi leccarsi le ferite. Un amore talmente forte ed esclusivo da sfumare nell’odio per se stessi e per l’altro. Due personalità complesse e contraddittorie, affascinanti nella loro imperfezione e deformità, di cui cogliamo un’immagine fugace come in un gioco di specchi, che un istante dopo ci restituisce una parvenza diversa della realtà. In particolare la personalità del padre, Martin, ricorda un sistema di scatole cinesi: la scatola più esterna ci restituisce la figura di un guerriero postmoderno, quasi un selvaggio, un survivalista estremo convinto che il mondo si stia autodistruggendo e che l’unica possibilità sia stare lontani dalla società, cosiddetta civile, vivendo di poco, a stretto contatto con la natura. Un uomo che sta allevando una figlia da solo, trasmettendole le sue convinzioni ai limiti della paranoia, insegnandole a usare le armi e a superare i suoi limiti, anche con la coercizione e la violenza. Poi sollevi il coperchio e resti abbagliata dalla luce e angosciata dalle ombre di questo amore intensissimo, malato, perverso, che ti spinge a pensare che la sovrastruttura del man into the wild sia un utile paravento, dietro cui isolare il loro rapporto deviato dal resto del mondo, un mondo che non deve sospettare nulla. Un padre che vede in sua figlia la sua unica ragione di vita, amata in maniera viscerale e ossessiva, abusata da lui fin da piccola. Un padre che esige da lei lo stesso tipo di amore, solo loro due, nella loro bolla che li separi da tutto il resto. Via il secondo coperchio e Martin si rivela un assiduo lettore, un uomo colto, un pensatore disilluso. Via il terzo e vengono fuori le sue fragilità, il rapporto ambivalente che lo lega a un padre che non si è mai preso cura di lui, un padre a sua volta violento ed egoista. Via l’ultimo e vedi nitidamente un uomo intrappolato, una vittima di se stesso, del solo modo di amare che conosce, e comprendi che ciò lo porta a odiarsi con la medesima intensità. Quel Martin, l’ultimo, è anche colui che, pur nella sua mente malata e sconvolta, vede chiaramente il futuro, sa già fin dall’inizio cosa a un certo punto dovrà accadere ed è per questo che, nonostante i suoi limiti, pretende con rigida disciplina che sua figlia sia migliore di lui, più forte, più determinata, più fredda e decisa di quanto lui non sia mai stato. Ed è a quel punto, quando arrivi a capire il senso dei vari indizi disseminati in tutto il romanzo fin dall’inizio, che in te lettore si ribaltano emozioni e convinzioni e la lettura da terrificante diventa catartica.
E vengo a Julia, figlia quattordicenne, detta Turtle, il solo nome in cui si riconosce e che le si addice alla perfezione, ricordandoci da un lato la corazza spessa e resistente che ricopre le testuggini e dall’altro una tartaruga ninja della famosa serie. Turtle, come è naturale, ama suo padre: Martin è tutto per lei, ma allo stesso tempo ne teme le reazioni estreme, e a un certo punto inizia a capire che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel loro rapporto, cosa che la spinge a sognare la fuga. Se nel caso di Martin percepivo il sentimento che prova per la sua crocchetta come una stretta catena, nel caso di Turtle mi ha fatto pensare a una molla, un elastico che lei tende solo fino a un certo punto, essendo incapace di raggiungere il punto critico oltre il quale l’elastico si possa spezzare. Lo ama, ne ha bisogno, pensa che non saprebbe vivere senza di lui, se non per pochi giorni, costantemente divisa tra il sentirsi una «Prigioniera» e l’attaccamento al padre, in cui il senso di colpa gioca un ruolo importante. Ecco, “Turtle pensa”… il libro è costellato di “Turtle pensa”… pensieri spesso in contraddizione, vuole e non vuole, tergiversa, esita, vorrebbe riuscirci, ma sa di non esserne in grado, di non essere pronta a spiccare il volo che le consentirebbe di trasformarsi da Prigioniera a Fuggitiva, con tutte le conseguenze del caso. Eppure al contempo sa che un giorno dovrà trovare in sé quella forza, col passar del tempo ne diventa sempre più consapevole, fino a quando comprende che, diversamente da lei, Martin lo ha sempre saputo: per tutta la vita l’ha preparata a quel momento, insegnandole a combattere per la propria libertà con una determinazione assoluta, inculcandole le capacità che le consentano di spezzare quella catena contro cui egli è impotente. Turtle, eroina suo malgrado, è in ogni caso un’eroina, che lascerà nel lettore un ricordo indelebile.
Questo romanzo è l’opera prima di un giovane scrittore di cui, sono certa, sentiremo parlare molto. Cresciuto nella regione in cui il romanzo è ambientato, è riuscito a rendere, con un ritmo incalzante e uno stile diretto e conciso, del tutto realistica una storia che correva facilmente il rischio di scivolare nella forzatura o nell’enfasi. Nulla di tutto questo: ogni descrizione, da quelle riguardanti la natura a quelle fisiche, comprese violenze e abusi, è cruda, fotografica, mai sopra le righe. Ottima a tal proposito la scelta del pov in terza persona al presente indicativo, che dà al lettore la sensazione di “vedere” le scene, come in una telecronaca in diretta.
Posa un ginocchio a terra e la prende fra le braccia.
«Cristo» dice. «Cristo. Gesù Cristo, crocchetta. Stai attenta. Cristo, crocchetta. Cristo.»
La stringe e lei resta lì, la vita avvolta fra le sue braccia. «Come stai diventando grande» dice lui, «e forte. Il mio assoluto amore. Il mio assoluto amore.»
«Sì» dice lei.
«Solo mio?»
«Solo tuo» dice lei, e lui le preme il viso sull’addome, preme con urgenza, solleva lo sguardo verso di lei, le braccia strette alla base della schiena.
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