L’unica cosa che conta è rimanere fedeli a ciò che si è veramente
Mi chiamo Eleanor Oliphant e sto bene, anzi: sto benissimo.
Non bado agli altri. So che spesso mi fissano, sussurrano, girano la testa quando passo. Forse è perché io dico sempre quello che penso. Ma io sorrido. Ho quasi trent’anni e da nove lavoro nello stesso ufficio. In pausa pranzo faccio le parole crociate. Poi torno a casa e mi prendo cura di Polly, la mia piantina: lei ha bisogno di me, e io non ho bisogno di nient’altro. Perché da sola sto bene.
Solo il mercoledì mi inquieta, perché è il giorno in cui arriva la telefonata di mia madre. Mi chiama dalla prigione. Dopo averla sentita, mi accorgo di sfiorare la cicatrice che ho sul volto e ogni cosa mi sembra diversa. Ma non dura molto, perché io non lo permetto.
E se me lo chiedete, infatti, io sto bene. Anzi, benissimo.
O così credevo, fino a oggi.
Perché oggi è successa una cosa nuova. Qualcuno mi ha rivolto un gesto gentile. Il primo della mia vita. E all’improvviso, ho scoperto che il mondo segue delle regole che non conosco. Che gli altri non hanno le mie paure, non cercano a ogni istante di dimenticare il passato. Forse il «tutto» che credevo di avere è precisamente tutto ciò che mi manca. E forse è ora di imparare davvero a stare bene.
Anzi: benissimo.
Gail Honeyman ha scritto un capolavoro. Un libro che secondo la stampa internazionale più autorevole rimarrà negli annali della letteratura. Un romanzo che per i librai è unico e raro come solo le grandi opere possono essere. In corso di pubblicazione in 35 paesi, è il romanzo d’esordio più venduto di sempre in Inghilterra, dove è da più di un anno in vetta alle classifiche. Ha vinto il Costa First Novel Award e presto diventerà un film. Una protagonista in cui tutti possono riconoscersi. Una storia di resilienza, di forza, di dolore, di speranza. Un grande romanzo con una grande anima.
Una copertina semplice che inchioda: alcuni fiammiferi usati che danno forma a una casa, una di quelle disegnate dai bambini quando iniziano a rapportarsi con le forme geometriche. Un inizio strano, quasi sottotono. Eppure il lettore sa che nulla è casuale, non può esserlo. Né la cover concettuale né l’incipit incolore, perché quella che si respira tra le pagine è una finta leggerezza dalla quale ci si aspetta di tutto.
Eleanor Oliphant sta bene, anzi: sta benissimo. È giovane, ma non giovanissima; bizzarra sia nei modi sia nei toni, i colleghi di lavoro si concedono dei commenti alle sue spalle che lei non ignora, ma che sembrano non toccarla.
Si veste con un budget limitato, preferendo la comodità alla moda che non capisce; è pulita, l’igiene personale è un punto su cui non transige malgrado casa sua, dopo il weekend, si trasformi in una specie di discarica tra bottiglie di superalcolici vuote, abiti dismessi in giro e i postumi delle sbornie consumate da sola. Il lunedì, però, Eleanor torna operativa, caustica nei suoi commenti che agli altri suonano rudi, maleducati, eccessivi senza che lei si renda conto di alcuna sfumatura.
Ogni settimana parla con la madre: telefonate cattivissime che lasciano lei affranta e il lettore destabilizzato. Un piano assurdo -fidanzarsi con un cantante che non conosce- diventa lo scopo da perseguire, il collante tra le due donne, l’argomento capace di stemperare il cinismo della madre che le ricorda settimanalmente quanto lei non valga niente. E quando Eleanor si tocca la cicatrice che le copre un lato del viso, le congetture del lettore si trasformano in certezze. Certezze che, però, sono destinate a disintegrarsi, finché la storia non si completerà grazie a tutti i tasselli sparsi di pagina in pagina.
“Eleanor Oliphant sta benissimo” ha il merito di essere un romanzo originale in un mercato di cloni e storie già lette.
Eleanor è sicuramente un personaggio fuori schema: senza filtri emotivi dice quello che pensa, incurante di ferire o dileggiare chi si trova davanti. È come una bambina priva di guida, che deve imparare tutto dall’inizio: a vestirsi, a truccarsi, a prendersi cura di sé in un modo diverso dal trangugiare alcol per stordirsi in solitaria ogni fine settimana. È convinta che uno sconosciuto sia l’uomo della sua vita, quello giusto per instaurare qualcosa di diverso dal rapporto con il suo ex che le ha lasciato il ricordo delle botte e dei denti rotti. Per questo è pronta a fare dei sacrifici che comportano un costo visto nell’ottica di un investimento: abiti nuovi, un taglio di capelli alla moda, una prova trucco che le insegni a coprire la cicatrice… almeno all’esterno.
E aprirsi al mondo significa vederne il lato buono, quello che ancora c’è nelle persone che incrociamo ogni giorno. E quando un collega di lavoro diventa un amico con il quale condividere l’esperienza di stare vicino a uno sconosciuto in un momento di bisogno, Eleanor Oliphant, forse, è pronta ad ammettere che, no, non sta benissimo.
Una storia commovente e vera, scritta con un taglio ironico capace di alleggerire un argomento non semplice da trattare.
Consigliatissimo.
“Adesso ho quasi trent’anni e lavoro qui da quando ne avevo ventuno. Bob, il proprietario, mi ha assunto poco dopo l’inizio dell’attività. Immagino che provasse pena per me. Avevo una laurea in lettere classiche e nessuna esperienza di lavoro degna di nota, e al colloquio mi ero presentata con un occhio nero, due denti mancanti e un braccio rotto. Forse, a quell’epoca, aveva subodorato che non avrei mai aspirato a qualcosa di più di un lavoro d’ufficio mal pagato, che mi sarei accontentata di stare nella sua agenzia e gli avrei risparmiato la scocciatura di dover ingaggiare una sostituta. Forse aveva anche intuito che non avrei mai preso dei giorni liberi per andare in luna di miele e non avrei mai chiesto un congedo per maternità. Non lo so.”
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