William Brooks è un giovane scrittore alla ricerca d’ispirazione a zonzo per le livide strade della febbricitante e contraddittoria New York della fine degli anni ’40. Scrive recensioni per il Partisan Review, la rivista più radicale della città, e frequenta i locali storici del bebop, costipati da morfinomani, perdigiorno e hipster. L’inaspettato incontro con un lontano parente, l’azzimato e nebuloso Noah Tats, riesce però a scuoterlo dal languore in cui si sentiva da tempo impaludato. Una seducente e misteriosa promessa di consapevolezza illumina d’improvviso l’orizzonte di William. Ma la strada è ancora percorsa da fittissime ombre e pesanti inquietudini… Valeria Biuso racconta la crisi identitaria di una generazione, evocando il relativismo dei nuovi valori fondamentali e le antinomie irrisolvibili che governano la società occidentale. Poesia beat, moda, jazz, esoterismo, gusto fantastico e controcultura hipster si fondono in un’appassionata e trasversale ricerca di autenticità.
di
Antonio Polizzi
Ci sono autori la cui maestria è tale, nel descrivere i personaggi e gli ambienti dove ha luogo una storia, da riuscire ad annullare ogni distanza tra il lettore e le scene descritte. È il caso di Valeria Biuso, la cui New York della seconda metà degli anni ’40 prende vita fin dalle prime pagine nel suo “Anche la morte ascolta il jazz”, bellissimo romanzo che ci fa percorrere le strade sulle quali cammina anche William Brooks, il protagonista.
Aspirante scrittore e insoddisfatto redattore della rivista Partisan Review, William si aggira nei meandri della metropoli tanto quanto in quelli della sua mente, perennemente in cerca di qualcosa che continua a sfuggirgli: la felicità. Lo si potrebbe persino paragonare a un Ulisse metropolitano che tenta di far ritorno nella sua Itaca, laddove essa non è un’isola di prosperità e amore familiare, ma solo una meno pretenziosa “vita normale” che lo soddisfi appieno, condizione che a lui appare così irraggiungibile da arrivare a essere una nemesi esistenziale.
Proprio come l’eroe omerico, anche William è un naufrago, in cerca però di un’immaginaria spiaggia sulla quale approdare per salvarsi; ma si ritrova, invece, sospinto qua e là dal vento di una prepotente crisi che non riguarda solo lui, come individuo, ma un’intera generazione che vagabonda tra alcol e droghe, credendo che, nella bottiglia di whisky o nella siringa di morfina, possano dissolversi le angosce del presente e i timori riguardo al futuro. Ed è così che vivono anche gli amici di William, in un circolo vizioso che non sembra dare scampo, tra feste in cui annullarsi e sostanze stupefacenti che esaltano l’istante, ma uccidono l’eternità.
Eppure non appaiono per nulla come una masnada di disperati che odia la vita o la disprezza, anzi, la capacità narrativa dell’autrice è anche quella di aver delineato alcuni personaggi secondari in maniera appositamente sfocata, allo scopo di farci vedere dei contorni morbidi, diversi cioè da quelle personalità nette e precise alle quali magari siamo abituati. In questo modo, il lettore può crearsi una sua immagine di questi coprotagonisti, la cui vita ruota intorno a William, non come dei poeti maledetti, ma piuttosto come dei testimoni di un declino sociale e culturale che appare inevitabile, così difficile da arrestare, e che ci porta quasi a giustificare il loro comportamento.
E anche William, come Ulisse, ha il suo Mentore: una figura che, nel romanzo, appare spesso all’improvviso e che risponde al nome di Noah Tats. Il personaggio di Noah, fedele al suo nome biblico, fa alcune tra le apparizioni più importanti proprio sotto una scrosciante pioggia, un simbolico diluvio che lava via i nefasti pensieri che William ha sulla morte. Noah si presenta come un parente lontano la cui ascendenza, come sostiene egli stesso, si perde “tra le radici genealogiche”. Noah è un personaggio che trova sempre il modo di far riflettere William su degli aspetti che vanno oltre il semplice materialismo, oltre la realtà percepita dai cinque sensi, e questo attraverso dei consigli che abbracciano ora una filosofia dai tratti orientali, ora una moderna psicologia motivazionale; il tutto però con una precisa spinta ad andare fino in fondo, a terminare il romanzo al quale il giovane sta ormai lavorando da troppo tempo, e a scoprire un significato più profondo che si rivelerà, proprio attraverso Noah, solo alla fine di questa storia. Tuttavia, William sembra compiere una parabola discendente che non può essere fermata da nessuno e, man mano che la narrazione prosegue, ci appare come un eroe che, ben lungi dal risorgere, sembra morire lentamente. In questa lenta discesa verso il fondo, William arriva a essere spettatore della propria esistenza, diventando “come una pietra di fiume” che subisce gli eventi, senza poter far nulla per modificarli. Anche la sua storia con Dahlia, la fidanzata, una poetessa che compone versi Zen ed è rossa nei capelli e nel cuore, perché in grado di declamare a memoria Marx, rischia di passargli attraverso come un’entità fantasma, priva di qualsiasi consistenza.
Come accennavo all’inizio, grande pregio dell’autrice, a mio avviso, è la cura certosina riservata alla descrizione di ogni scena, tanto che ci sembra di percorrere con William le strade di New York, accumulando miglia sotto ai piedi, o di essere seduti sui larghi sedili in pelle delle auto di quell’epoca, sgangherate quanto le vite dell’aspirante scrittore e dei suoi amici.
Una tecnica e uno stile, quelli della Biuso, dai quali si evince l’amore che deve avere per Céline e per Kerouac.
Infine, come si intuisce dal titolo stesso, in questo romanzo non c’è solo un ritmo narrativo dato dall’intersecarsi delle parole e delle frasi, ma anche un ritmo musicale dato da tutti gli accenni ai jazz club, nei quali William, solcando New York con il suo mal di vivere, approda spesso: punti fissi nella sua mappa di viaggio, sono i luoghi d’eccellenza dove i bopper come lui assistono agli ipnotici virtuosismi delle jam session. E al tavolo, mentre è seduto accanto a William, tra una sigaretta Gauloise e un whisky a buon mercato, anche al lettore pare di ascoltare le note di Gillespie, che si spingono oltre i confini del romanzo, in un intreccio dove nulla è ciò che sembra.
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Chi è il vero protagonista di questo romanzo? Will Brooks, forse, o il suo spleen decadente? Il suo romanzo incompiuto? No, credo che la vera protagonista sia la città che non dorme mai, questa New York pesta e ubriaca, morfinomane e indifferente, dentro cui Will e gli altri personaggi si muovono come fantasmi, alla ricerca di una qualche ragione per continuare a vivere, pur spesso non sospettandolo. Si trascinano da un bar all’altro, ascoltano jazz, fanno sesso, si incontrano, si scontrano, ma ogni cosa è niente, nessuno lascia una traccia, nessuno guarda oltre se stesso.
Doug, uno degli incontri, dice, in una notte di marijuana e alcol:
A che serve essere egoisti? Meglio essere dei camaleonti. Anche Keats voleva esserlo. Dobbiamo liberarci, fratello mio. Nessun impegno, nessuna lotta, nessuna rabbia, nessun movimento. Solo resistenza passiva.
E così trascorrono le ore e i giorni, e le notti, nella consapevolezza, a volte ridicola, del non essere nulla in quella enorme città.
Solo una persona è in grado di scuotere Will dal torpore di un’esistenza in vuoto pneumatico, Noah Tats, enigmatico figuro che sbuca fuori inatteso e nei più strani frangenti. Will parla con Noah, tira fuori il meglio e il peggio, racconta a lui più di quanto non racconti neanche a se stesso.
E Will, con furore, rimette mano al suo libro, e, con assoluto disincanto, mette fine alla sua ultima storia d’amore, vedendo se stesso e lei:
… come due passeggeri del Titanic, impegnati a danzare sul ponte, a tempo con i boati e le grida dell’ineluttabile e ridicola catastrofe. In verità, nessuno dei due era mai salito a bordo. Ci trovavamo, forse, sul molo di partenza, lontanissimi dagli avventurieri, dai disperati e dagli innamorati che ballavano o bestemmiavano mentre la nave colava a picco nell’oceano.
Poi la storia si conclude, con un anagramma e un senso assoluto di premonizione, quel tocco di paranormale che, lui da solo, incanta.
Molto attenta mi è parsa l’autrice a disseminare nel corso del testo impressioni e citazioni, pungoli letterari per estimatori e lettori accorti. Nonostante ciò, alcune lentezze e qualche vezzo linguistico tolgono gusto alla lettura.
E poi, Jack Kerouac diceva, non senza un certo autocompiacimento: “La Beat Generation è un gruppo di bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo.”
E se lo diceva lui…
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