Caleb è un uomo con un unico obiettivo: la vendetta. Rapito da ragazzino e venduto come schiavo da un mafioso affamato di potere, da allora non ha mai pensato ad altro che a vendicarsi. Per dodici anni ha esplorato il mondo degli schiavi del piacere alla ricerca dell’uomo che ritiene responsabile del suo tremendo passato. Finalmente riesce a trovare l’artefice della sua sofferenza: ha una nuova identità, ma la stessa natura di un tempo. Per avvicinarsi abbastanza da colpirlo, Caleb deve trasformarsi in ciò che più odia e rapire una bellissima ragazza perché sia la vittima che lui stesso è stato.
Olivia Ruiz ha diciotto anni e si è appena svegliata in uno strano posto. Bendata e legata, ad accoglierla c’è soltanto una calma voce maschile. Si chiama Caleb, ma vuole essere chiamato Padrone. Olivia è giovane, bellissima, ingenua e testarda. Possiede una sensualità oscura che non riesce a nascondere. Pur essendo terrorizzata dall’uomo forte, sadico e arrogante che la tiene prigioniera, l’irresistibile attrazione che prova per lui la tiene sveglia nel buio.
Mentre scrivo questa recensione, mi sento ancora tutta scombussolata per l’intensità delle emozioni provate, a cui si aggiunge l’ansia di far presto per poter subito iniziare il secondo volume della serie dark romance Captive. Sì, amo i dark romance ben scritti, amo entrare nella testa di vittime e carnefici, amo carpirne la psicologia, e non per questo mi ritengo malata o deviata, o ritengo che qualcuno si possa sentire autorizzato a giudicarmi tale. Chiusa parentesi di piccola polemica. Non me ne scuso, essendo abbastanza stanca di un certo modo di ragionare e giudicare coi paraocchi, di cui sia gli autori che i lettori di dark vengono spesso fatti oggetto.
Anzitutto sono contenta di aver aspettato per poter leggere di seguito entrambi i libri – sarebbe stata veramente dura dover attendere tutti questi mesi – ed è per questo che solo ora, a pubblicazione avvenuta del sequel e a distanza di quasi un anno dall’uscita di Dark Blue, mi accingo a parlarvene.
Non vi racconterò la storia, d’altra parte cerco di non farlo mai più di tanto, ma stavolta credo proprio che non ne sarei capace neppure volendo. Cercherò invece di descrivervi, se riesco, ciò che ho provato durante la lettura.
Per la prima metà del libro mi sono identificata con Livvie, appena diciottenne, poco più di una bambina: rapita, terrorizzata, preda dell’angoscia e dell’impotenza, costretta a un senso di claustrofobia fisica e mentale. Mi sono sentita, come deve essersi sentita lei, in un flusso indistinto: le pareti di quella maledetta stanza si chiudono su di me, le vessazioni fisiche e soprattutto psicologiche stringono il mio cuore in una morsa. Eppure Caleb, il mio rapitore, il mio Padrone, mi confonde: un momento prima è un mostro senza pietà, deciso a spezzarmi, l’attimo dopo mi abbraccia e mi consola. Bastone e carota, bastone e carota, manipola la mia mente affinché io diventi ciò che lui vuole… ma cos’è che vuole? Non lo capisco… e non voglio, non posso essere ciò di cui fin da piccola sono stata ingiustamente accusata. Eppure la sua luce mi attira allo stesso modo in cui la sua oscurità mi sconvolge. Caleb mi fa male, tanto male, ma poi lascia che trovi in lui il mio rifugio, e io mi stringo a lui vulnerabile e bisognosa di affetto, pur sapendo che è tutta una bugia. Ecco, queste sono state le mie sensazioni, qui rese a parole.
Ecco, in questa prima parte Caleb per me è un enigma. Sì, c’è il doppio Pov, in prima persona per lei, in terza per lui, che dovrebbe teoricamente farmelo comprendere almeno un po’, eppure, non so se per un effetto voluto dall’autrice – il mio sospetto è quello – non si riesce più di tanto a connettersi con la sua personalità. Si conoscono le sue motivazioni, la gratitudine per Rafiq anzitutto, cui pensa di dovere ogni cosa: gratitudine che lo spinge a perseguire una vendetta non veramente sua, da dodici lunghi anni, accettando di diventare egli stesso un mostro, per poter avvicinare colui che distrusse la famiglia del suo salvatore. In quest’ottica, Livvie è per lui solo ed esclusivamente un mezzo per ottenere un fine. Ma è davvero così? In realtà non si sa capisce bene cosa provi, se in lui sono presenti, oltre alla fredda determinazione, anche rimpianti o sensi di colpa, o se è un uomo rotto, in maniera irrecuperabile. L’autrice dissemina indizi che lasciano intuire e immaginare al lettore che Caleb, a un certo punto, inizi ad identificarsi, a causa del suo passato, col presente vissuto da Livvie; oltre a provare per lei una forte attrazione, che a volte lo mette in difficoltà nello svolgimento del compito che si è prefisso, ovvero addestrarla in tempi rapidi a diventare una sottomessa, una schiava del piacere.
Nella seconda parte le cose si fanno più chiare, grazie anche alle incursioni nel passato di Caleb, dal quale emergono le violenze che lui stesso ha subito da ragazzino, tanto che si inizia a vedere lui e Livvie come una coppia di sopravvissuti, aventi molto in comune, al di là di quanto i ruoli prestabiliti di vittima e carnefice impongano; così come il loro legame si percepisce distruttivo e curativo al contempo, sia nel corpo che nello spirito. E comunque il libro termina con un cliffhanger, com’è giusto che sia: cosa sceglierà di fare Caleb? Sacrificherà la sua Gattina in nome della vendetta, della riconoscenza per Rafiq, del debito che prova nei suoi confronti? Riuscirà a farlo? Non vedo l’ora di scoprirlo, leggendo il secondo capitolo di questa serie.
Spendo altre due parole sulla storia solo per dirvi che la premessa iniziale, l’ufficiale dell’esercito pakistano che salva il ragazzino da morte certa, per poi farne, senza alcuna remora di carattere morale, strumento della sua vendetta, nonché l’attaccamento di Caleb a quest’uomo, è ciò che nel libro stride di più a mio parere. Comprensibile la dedizione di Caleb a Rafiq, e ciononostante impossibile non vedere che il cosiddetto salvatore lo stia usando da anni a suo piacimento, anche se in maniera più subdola.
Lo stile narrativo mi è piaciuto molto, ha una certa eleganza che ho apprezzato, come ho apprezzato che, nelle scene più violente, l’autrice non scada nel raccapricciante, prediligendo la descrizione degli stati d’animo all’indugiare sugli stati fisici.
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