Vent’anni fa, un’estate in Riviera, una di quelle estati che segnano la vita per sempre. Elio ha diciassette anni, e per lui sono appena iniziate le vacanze nella splendida villa di famiglia nel Ponente ligure. Figlio di un professore universitario, musicista sensibile, decisamente colto per la sua età, il ragazzo aspetta come ogni anno “l’ospite dell’estate, l’ennesima scocciatura”: uno studente in arrivo da New York per lavorare alla sua tesi di post dottorato. Ma Oliver, il giovane americano, conquista tutti con la sua bellezza e i modi disinvolti. Anche Elio ne è irretito. I due condividono, oltre alle origini ebraiche, molte passioni: discutono di film, libri, fanno passeggiate e corse in bici. E tra loro nasce un desiderio inesorabile quanto inatteso, vissuto fino in fondo, dalla sofferenza all’estasi. “Chiamami col tuo nome” è la storia di un paradiso scoperto e già perduto, una meditazione proustiana sul tempo e sul desiderio, una domanda che resta aperta finché Elio e Oliver si ritroveranno un giorno a confessare a se stessi che “questa cosa che quasi non fu mai ancora ci tenta”.
Leggete, vi farò esclamare: “ha scoperto l’acqua calda, questa.”
Non ci credete? Bene: il libro è più bello del film. Visto?
Il punto, però, non è così scontato perché se parliamo dell’adattamento cinematografico di Call me by your name, diretto da Luca Guadagnino, siamo davanti a una pellicola che ha tirato dentro una serie impressionante di Paesi, produttori ed esecutivi, con un unico obiettivo: gli Oscar 2018.
Tralasciamo i riconoscimenti di settore, quelli ottenuti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la lista interminabile di candidature per ogni premio disponibile nell’anno in corso, dalla regia alla sceneggiatura passando per il miglior attore, protagonista, non protagonista; e colonna sonora; la corsa agli Oscar vede Call me by your name candidato per il miglior film, miglior attore, migliore sceneggiatura e miglior canzone.
E, diciamolo, con merito, perché è un bel film che riesce a ipnotizzarti nonostante la lentezza esasperante dell’intero primo tempo, ma che con due scene, due, spiazza qualsiasi emozione come una boccia sulla pista di un bowling.
Per questo, mi sono avvicinata al libro di André Aciman, certa comunque che il soggetto sarebbe stato quello. E, come l’ultima delle lettrici, ho scoperto che il libro è molto, molto, di più della sua trasposizione cinematografica. L’acqua calda, vi dicevo.
Il punto è che il film è una versione patinata di una storia molto più cruda. La stessa trama su Amazon, e qui inserita, punta il dito su una passione cerebrale, nata per cultura e retaggio -ebraico- comuni ai due protagonisti, Elio e Oliver.
Non è così.
Nelle pagine di Chiamami con tuo nome di Aciman siamo davanti a una passione devastante, come solo può esserlo quella che ti sradica ogni convenzione, smonta certezze, rispiega educazione, e ti rilascia con un corpo che ha valore non perché è tuo, ma suo.
Elio ha diciassette anni e il film punta tutto sul dubbio del desiderio, sull’incertezza di chi si affaccia al mondo degli adulti con un’identità tutta da scoprire, nel libro non è così. Elio sa, Elio desidera, Elio ha l’assoluta percezione del proprio corpo e di quello di Oliver. Non a caso il film taglia su una scena magistrale, che non è però la chiusa del libro, più viva, più autentica, dolorosa, ma meno cinica.
Il padre di Elio è un professore che ospita ogni estate, nella sua villa nel Ponente ligure, un giovane intellettuale o ricercatore, in modo che possa lavorare su un progetto in corso in tutta tranquillità a fronte di un piccolo aiuto per smistare la corrispondenza.
Elio è cresciuto così, conosce le usanze e la gente che si affolla in casa durante l’estate; è una scocciatura, sebbene questa atmosfera culturalmente viva abbia fatto di lui quello che è: un ragazzo dalla testa e dal cuore di uomo. Fine musicista, colto, Elio è molto più maturo rispetto ai figli degli amici dei genitori, con cui pure si relaziona.
Quando Oliver fa ingresso alla villa, con quell’aria da divo hollywoodiano e la camicia aperta, “svolazzina”, Elio si ammala di un desiderio che nulla a che vedere con la curiosità già provata per altri in passato, e mai realizzata.
“Suonerò qualunque cosa per te finché non mi dirai di smettere, finché non sarà ora di pranzo, finché non mi verrà via la pelle dai polpastrelli, strato dopo strato, perché mi piace fare qualcosa per te, farò tutto quello che vorrai, devi soltanto dirmelo.”
Tutto gli parla di Oliver: il suo modo di relazionarsi agli altri, conquistandoli o incantandoli; quel suo tagliare il discorso dicendo “Dopo!”, e quello di chiamare sua madre con la sola iniziale. Anche la sufficienza che usa nei suoi confronti.
“Fa’ che l’estate non finisca mai, che lui non se ne vada mai, che suoni all’infinito la stessa musica, non chiedo molto e giuro che poi non chiederò più nulla.”
Elio è diviso: vorrebbe ignorarlo e stuzzicarlo, colpirlo e fuggirgli, finché quello che prova è così forte da dichiararsi perché solo “Così l’avrei fatto uscire dal mio organismo.”
Oliver fece una pausa.
“Si tratta di noi due, allora.”
Non risposi.
“Vediamo un po’, dunque…” e prima che me ne accorgessi, era sgusciato verso di me. Eravamo troppo vicini, pensai, non ero mai stato così vicino a lui, tranne nei sogni o quando mi accendeva la sigaretta con le mani a coppa. Se avesse avvicinato di più l’orecchio, avrebbe sentito il mio cuore.
Quello che succederà tra lui e Oliver in quell’estate segnerà entrambi, e non solo nel presente.
“Spogliati, Oliver, e vieni nel mio letto, fammi sentire la tua pelle, i tuoi capelli sulla mia carne, il tuo piede sul mio, anche se non faremo niente, accoccoliamoci uno contro l’altro, tu e io, quando la notte si stende contro il cielo, e leggiamo storie di anime senza riposo che alla fine si ritrovano sempre e sole e odiano stare sole perché è la compagnia di se stessi che non si sopporta.”
Chiamami col tuo nome è uno di quei romanzi che a lettura finita, torni alla prima pagina, leggi la data di edizione -2007, per quella originale; 2008 nella traduzione italiana- e pensi: “E io dov’ero per perdermi un libro del genere?”
Delicato e, insieme, crudo; colto e disarmante, l’opera di Aciman ha la grazia dell’equilibrio e in ogni pagina si marca la bellezza di qualcosa andato, ma mai veramente perduto.
“Come tutte le esperienze che ci segnano a vita, mi ritrovai rivoltato, sventrato, squartato. Era la somma di tutto ciò che ero stato nella mia vita, e anche di più.”
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