Cartaceo/altri e-store: uscita 7 novembre
Roma, Anno del Signore esamidimaturità.
Melania Santacroce ha diciotto anni, un gusto eccentrico in fatto di vestiti e i capelli tinti di viola. Afferma di portare una terza scarsa di seno più per ottimismo che per amore della realtà e, quando non si allontana dal mondo per comporre poesie distratte, si interroga sull’efficacia delle taglie dei jeans, su Lord Byron e sulla dubbia puntualità dei mezzi di trasporto capitolini.
Sebbene alta e non proprio esile, a volte teme di risultare impercettibile, ma a salvarla dalla banalità del quotidiano sono le uscite al vetriolo che di tanto in tanto ama diffondere con nonchalance.
Non è proprio sicura di credere in Dio, ma frequenta una scuola privata di stampo cattolico.
Non ama tradurre il greco, ma si accinge ad affrontare l’ultimo anno di liceo classico.
Non si è mai innamorata, ma alla fine è arrivato Manfredi Vergara: suo professore e uomo impegnato in una relazione complicata con Dio.
Perché Manfredi è un prete.
E Melania, che non ha mai assaporato la tentazione, si trasformerà in quella più pericolosa per un uomo che non appartiene nemmeno a se stesso.
O forse nel suo amabile inferno.
Primo capitolo
Specchi
Perseverava.
Sebbene incline a disconoscere le proprie abilità, quella doveva proprio attribuirsela Melania: sapeva perseverare.
Non sarebbe sopravvissuta tanto in quella scuola, del resto, se non ne fosse stata capace. Ormai era giunta all’ultimo anno, alla vigilia della vita adulta, la temuta maturità, quindi perseverava, e al San Carlo continuava ad andarci.
Limitava le assenze fisiche a favore di quelle mentali, senza tuttavia concedere alla distrazione di trasportarla troppo lontano, anche perché la professoressa Ferranti sembrava provvista di radar e captava il minimo segno di disattenzione per poi farne il dramma della giornata e infierire a colpi di domande che, se qualcuno glielo avesse concesso, Melania avrebbe semplicemente definito del cazzo.
Come d’altronde era la materia della Ferranti: Storia; gente morta che testimoniava quanto potessero cambiare gli usi e i costumi ma non le anime degli esseri umani, e che se prima si combatteva con i cavalli lasciandosi precedere dalla fanteria, ora le guerre si annunciavano tra cinguettii virtuali e aggiornamenti di status. Per poi ribadire il concetto con un paio di esperimenti a base di missili nucleari e accidentali raid aerei.
Avrebbe potuto chiedere a suo padre di iscriverla in un qualsiasi altro liceo classico statale della capitale, ma sapeva che lo avrebbe deluso. Enrico Santacroce era un romantico, checché ne dicesse, e siccome il San Carlo gli aveva regalato l’amore di Rossana, gli era parso altrettanto amorevole concedere alla sua unica figlia la stessa opportunità.
Un’opportunità che non si era presentata: a diciotto anni, Melania Santacroce poteva vantare l’illibatezza più completa, da quella della bocca – se si escludeva un bacio a stampo dato a una festa, per scommessa, quando aveva sedici anni – a quella più segreta e impegnativa che custodiva tra le gambe. Ma si sarebbe vantata di ciò solo grazie a dosi massicce di benzodiazepine mischiate a vodka, perché tutta quella verginità cominciava ad andarle stretta.
Non che sentisse l’esigenza di liberarsene alla prima occasione utile. Ne aveva avuto una manciata, ciononostante aveva deciso di non coglierle. Non voleva perdere la verginità per chissà quale ragione psicologica, aveva solo una maledettissima voglia di fare sesso. Toccarsi, infatti, trattenere i gemiti contro il cuscino prima di andare a dormire, non le bastava più. Voleva sentire qualcosa di più profondo e intenso, qualcosa che la facesse gridare liberamente. L’orgasmo le conciliava il sonno, ma le sembrava un piacere smussato, troppo breve e solitario – benché la solitudine le piacesse –, e la sua indole generosa le suggeriva di condividerla con qualcuno.
Con qualcuno che desiderasse.
E poi, da quando in classe era giunto il nuovo insegnante di Italiano, Latino e Greco, il professor Vergara, la smania appariva più ingombrante, come se non fosse più in grado di contenerla tra i confini umidi della propria intimità, permettendo solo a una lieve traccia sugli slip di cotone di palesarla.
Nessuno l’avrebbe biasimata, nemmeno le sue compagne di classe, che pure stravedevano per il giovane prof – capelli corvini che lasciavano presagire una morbidezza illecita, occhi verdi, sorriso tipico di quelli che si erano conquistati la libertà di mettere voti: convinto. Il tutto potenziato da un fisico asciutto e massiccio, di quelli che suggeriscono benessere senza vivere di limitazioni.
Si guardò allo specchio.
Ottobre minacciava scrosci precoci quell’anno, colpa dell’estate appena fuggita, calda in modo anomalo, così Melania si era già dovuta rassegnare all’idea di dover indossare il maglione di cotone blu della divisa e rinunciare alle maniche corte. Malgrado ciò, forse la divisa era l’unica cosa che davvero apprezzava del San Carlo: la liberava dell’incombenza di dover pensare a un look che fosse sempre impeccabile e adatto agli standard dell’istituto – uno dei tanti effetti collaterali di quando ti ritrovi in una scuola per figli di papà senza essere una di loro.
I Santacroce avevano perso la propria ricchezza pochi anni prima della nascita di Melania, e sua madre, che era una De Levi, era stata diseredata in seguito al matrimonio con Enrico, improvvisamente povero di prospettive. A Melania non era mai importato. Era felice della famiglia in cui era nata e cresciuta e non le era mai mancato nulla; suo padre era riuscito a diventare architetto e sua madre lavorava come segretaria presso uno studio legale.
Guardò il riflesso che le restituiva lo specchio e sorrise: quel giorno in classe avrebbero avuto qualcosa di cui parlare.
Melania amava il viola, e come regalo extra per i diciotto anni aveva chiesto ai genitori il permesso di tingersi i capelli del colore che preferiva – perseverava, perseverava nel sentirsi Melania. E benché quella scelta violasse le regole del San Carlo, sapeva che nessuno avrebbe alzato obiezioni, vista la consistenza della retta semestrale.
Per la prima volta dopo tanto tempo, lo specchio le regalava la conoscenza di una persona più congeniale a quella che sentiva di essere.
Le era sempre piaciuto pensare all’esistenza di un mondo intero oltre gli specchi, pensare che i riflessi delle persone, in realtà, fossero gli abitanti di un altro universo. Ogni riflesso, immaginava, aveva un proprio carattere e possedeva una caratteristica volontà. Al cospetto di uno specchio, l’uno vedeva le possibilità che avrebbe potuto cogliere l’altro.
E si illudevano, sempre l’un l’altro, di possedersi, di essere l’uno il doppione dell’altro, in preda a deliri di onnipotenza mascherati da bisogni vanitosi.
Il cellulare emise un trillo inconfondibile, il segnale che Francesca fosse fuori ad attenderla. Da quando aveva preso la patente, un mese prima, passava tutte le mattine a prenderla e raggiungevano la scuola in auto. Il che concedeva a entrambe venti minuti preziosi di sonno in più e un notevole calo dello stress da città eterna, poiché Roma, dalle sette fino alle dieci, sembrava essere fatta della stessa sostanza del traffico.
Melania afferrò lo zaino e scese di sotto. I suoi dovevano essere usciti presto per andare a lavoro, ma sua madre si era ricordata di lasciarle dei soldi sul tavolo della cucina. Quindi uscì dal portone in tutta fretta, perché Francesca odiava le attese, ed entrò in macchina con il fiatone dando prova inconfutabile delle scarse doti atletiche che la contraddistinguevano.
«Sono fantastici!», strillò Francesca rimettendo in moto.
Melania ci mise un secondo di troppo a capire che l’amica si stesse riferendo ai capelli, ma sorrise e scosse la testa due volte. «Belli, vero? Il colore è venuto benissimo! E ho comprato anche un flacone per i ritocchi».
«È bello anche il taglio. Lo sapevo che saresti stata bene con un caschetto disordinato, ti evidenzia gli occhi enormi che ti ritrovi. Oggi in classe non parleranno d’altro!»
«Vergara mi guarderà con profonda disapprovazione, chissà che stasera non mi tenga tra le sue preghiere per provare a salvare la mia anima ormai corrotta…»
«Anche a me piacerebbe ritrovarmi nelle preghiere serali di Vergara, lo confesso», disse Francesca ridacchiando, per poi inveire contro l’ennesimo automobilista distratto.
Melania ripensò alla prima volta in cui il professor Vergara era entrato in classe. Era apparso cordiale, le labbra inclinate all’insù senza sfociare in una smorfia dall’allegria effimera, la camicia perfettamente stirata e i capelli all’indietro, una pettinatura seria che conferiva alla linea dura della mascella severità. Ricordò di aver pensato che assomigliasse parecchio ad un giovane Alain Delon e di essersi concentrata a fissargli le mani – grandi, dalle dita affusolate –, perché le mani era la prima parte del corpo di un uomo su cui posava gli occhi.
I ragazzi erano rimasti impietriti, le ragazze invece avevano a stento trattenuto le risatine – eccezione fatta per Francesca, che non lo aveva degnato di uno sguardo, preferendo concentrarsi sulla lista dei libri di testo che la segreteria aveva appena consegnato alle classi.
«Buongiorno», aveva detto il prof. «Mi chiamo Manfredi Vergara, ma se arriverete sani e salvi alla maturità, potrete anche chiamarmi Dio. Ci aspetta un anno intenso e pieno di lavoro e ho tutta l’intenzione di guidarvici al meglio. Cominciamo?»
Perlomeno, si era detta Melania, aveva il dono della sintesi.
Attraversarono viale Travestere con la consueta lentezza dettata dal flusso singhiozzante del traffico. Melania lo osservò al di là del vetro, l’autunno: una promessa di gelo che si sarebbe compita ai primi accenni del cambio di stagione, calde macchie di colore che tingevano le strade, il cielo ametista striato di bianco e di rosso, sottili strati di ghiaccio sui parabrezza delle automobili parcheggiate lungo i marciapiedi, e pensò che fosse bello, l’autunno di Roma, anche un autunno freddo come quello.
Il tram 8 le superò. Francesca sbuffò di impazienza e accese la radio proprio quando Lonely Boydei Black Keys intonò il proprio ritornello: Oh, oh-oh, I got a love that keeps me waiting/ Oh, oh-oh, I got a love that keeps me waiting/ I’m a lonely boy/ I’m a lonely boy…
Melania alzò il volume e insieme presero a cantare, sovrastando la voce di Daniel Auerbach, ebbre di quella giovinezza che straripava nelle più piccole manifestazioni, facendo della sveglia al mattino la più terribile delle congiure per poi trovarsi a urlare in macchina in preda all’allegria più sfrenata, dimentiche del sonno.
Una volta parcheggiato, Francesca e Melania attraversarono i giardini dell’istituto e raggiunsero le scale di ingresso – larghe scale di marmo, costeggiate da corrimano contro cui gli studenti rimanevano appoggiati indolenti sino al secondo squillo della campanella.
Melania sentì di avere gli occhi di tutti addosso, ma non se ne curò. Era abituata agli sguardi diffidenti di chi studiava al San Carlo. Si parlava ancora del crollo finanziario dei Santacroce, anche se erano passati più di vent’anni, e al pettegolezzo si erano aggiunti veri e propri sforzi di fantasia, attribuendo a Melania l’appartenenza a una setta pagana o ad Enrico una celata omosessualità.
Non era proprio una di loro, Melania lo sapeva. L’unica borsa Chanelche possedeva apparteneva a sua madre e il più delle volte preferiva non sfoggiarla, perché temeva di rovinarla; non aveva ville al mare in cui trascorrere le vacanze estive né uno chateau per improvvise settimane bianche; il suo rossetto preferito era un liquid effetto matte di KIKOe i suoi jeans preferiti li aveva comprati da Zara. I soldi che i suoi le elargivano tendeva a spenderli in qualche libreria o al cinema – in condizioni fortunate li dissipava su Amazon– e stava cercando di metterne un po’ da parte per il primo tatuaggio.
Era, dunque, una ragazza perfettamente normale, senza grandi vizi e ostentazioni, tranne quella di una vena vagamente eversiva, come dimostravano i suoi capelli.
Francesca le disse di andare avanti, voleva fumare una sigaretta in bagno prima dell’inizio delle lezioni.
«Va bene», le disse Melania. «Ma sbrigati, che la campanella è già suonata».
In classe, due compagne la salutarono distrattamente e Beatrice Anisetti le si avvicinò. «Bel colore, Santacroce…»
Dubitava lo pensasse davvero, ma Melania accennò comunque un sorriso.
«Hai litigato con la parrucchiera?», berciò Loffredi, banale quanto una citazione di Charles Bukowski come didascalia nella foto di un culo. Non per nulla, stando a quanto diceva sua madre, era il degno figlio di Giulio Loffredi, che per non mancare di eleganza si era limitata a definire: un monumento antropomorfo all’idiozia provvisto di soffio vitale.
«Fredo, sono le otto. È illegale rompere le palle alle otto. Ti levi?»
Andrea Loffredi si spostò, non si astenne tuttavia dal dare conferma di quanto sapesse essere molesto, e Melania si sistemò al banco. Proprio quando il ragazzo fece per dirne un’altra delle sue, però, la classe si ammutolì, perché Vergara aveva appena fatto il suo ingresso.
«Buongiorno a tutti», disse.
Sempre lo stesso sorriso, sempre la stessa camicia immacolata.
Prese posto alla cattedra e aprì il registro per fare l’appello, passando in rassegna ogni volto di chi nominava. Quando arrivò a Santacroce, Melania lo vide inarcare un sopracciglio.
«Santacroce, scelta singolare…», commentò.
Qualcuno scoppiò a ridere, qualcun altro fischiò. Vergara scosse la testa ghignando. Benché esigente sotto il profilo scolastico, non dava mai eccessivo peso alla condotta, purché si rimanesse nei limiti. E nonostante ciò, la maggior parte dei suoi studenti lo temeva comunque, specie perché aveva un modo molto severo di scrutarli, quasi volesse cogliere i livelli empirici della loro preparazione.
«Lo ha detto anche mia madre», ribatté Melania. «E aspetti di vedere il tatuaggio. Sarà grandioso».
«Un paio di versi di Byron?»
Accidenti. Doveva essersi ricordato che le piaceva molto la poesia inglese da quando l’aveva sorpresa a leggere un volumetto tascabile a ricreazione. Cercò qualcosa con cui sconvolgerlo e inventò sul momento: «Pensavo più a una frase profonda tipo: “Se non mi ami è perché sei frocio”».
Alice Neri emise un’esclamazione sbigottita. Gli altri risero ancora. Vergara si mostrò imperturbabile.
Era raro che Melania interagisse in modo tanto spavaldo e inopportuno davanti a tante persone e suppose che la tinta dei capelli dovesse avere qualche effetto sulle sue inibizioni, ma per la prima volta sentì di voler attirare l’attenzione. L’attenzione del professore più misterioso del creato. Forse per smuovere quella patina di naturale compostezza che lo sagomava.
«La scelta lessicale, più che singolare, sembra essere stata fatta con cura», disse Vergara. «Comunque stai bene con quel colore», aggiunse, per poi andare avanti con l’appello. «Severini?»
«Eccomi», disse Francesca entrando e tenendo alzata la mano.
Melania, stupita una seconda volta nel giro di due minuti, lo fissò come fosse un alieno. Nel frattempo Francesca le si sedette accanto e le chiese: «Novità?»
«Forse cambio idea sul tatuaggio. Vergara ha detto che “Se non mi ami è perché sei frocio” gli sembra una scelta accurata».
«Lo hai detto davvero?» L’amica rise. «Cavolo! Me lo sono persa!»
Melania però pensò che fossero tutte loro, a perderci, guardando Vergara: tanto bello, tanto interessante, totalmente fuori dalla portata di ognuna. E non perché fosse un professore.
Ma perché era un prete.
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