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Il terzo millennio sta per arrivare. Scalcia pieno di aspettative anche alla porta di Diana, diciassettenne a Roma nel 1999. Diana, che vede nel suo riflesso allo specchio la Eleanor Rigby dei Beatles, confida i suoi segreti a una bizzarra suora laica e, perfino nella sua scarsa vita sociale in parrocchia, soffre l’ombra della sua sorella adottiva: Khady, metà senegalese, metà francese, troppo bella e troppo dolce per essere vera.
A vent’anni dal Duemila, Il Bacio è la storia di un primo amore decisamente fuori dagli schemi. Una storia quasi futurista di integrazione e conflitto, crescita, scoperta e incantesimo dell’attesa.
Khady non è una figlia adottiva: ce l’ha portata la corrente più potente e più familiare del nostro stesso sangue.
Siamo in Italia, fine anni Novanta. Diana è la sorella di Khady, quest’ultima adottata dalla sua famiglia quando aveva cinque anni e Diana tre e mezzo.
Il primo personaggio che buca le pagine è proprio lei, la gazzella bruna, intensa, rigogliosa, eterea e bellissima, tra le cui pieghe Diana si nasconde, scompare, come se sentisse di non meritare la scena.
Ma in realtà è proprio Diana la solista di questa storia, e usa come pretesto la sorella per indagare il loro rapporto, l’amore che provano l’una per l’altra, ma anche segreti insospettabili, innocenti bugie, un non detto che Diana non immaginava potesse appartenere a quell’angelica venere bruna.
È Diana, unicamente Diana, a calcare il palco col riflettore puntato addosso, mentre tutti gli altri personaggi, misurati in base all’unità-Khady, le passano accanto, recitano le loro battute, e chi più, chi meno, contribuiscono ad ampliare il suo punto di vista, a costruire nuovi e sbalorditivi pensieri. L’aiutano a crescere, insomma.
La trama è il viaggio di una sedicenne che si appresta ad entrare nell’età adulta; è un intrico di passaggi segreti, una scia sotterranea di pensieri, che si rafforzano man mano che la vera scoperta di sé si avvicina.
Diana è limpida, il suo dialogo interiore una vera baruffa (in senso buono). Fino a quando gli eventi non si incastrano, l’amore – o forse dovrei dire la passione – sboccia e diventa la nuova unità di misura, la sostanza di una persona diversa, un po’ più donna, un po’ meno bambina.
Ho letto questo romanzo tutto d’un fiato, come non mi succedeva da tempo. All’inizio ho fatto un po’ fatica a inquadrare lo stile dell’autrice, perché è complesso, ricco di immagini, metafore e similitudini, tra l’altro mai scontate e banali. Direi anzi che il modo in cui è scritto rende ancor più originale la trama, che comunque non difetta di nulla, è un cerchio, un bel tondo (parola che piace molto all’autrice) in cui alla fine tutto assume il senso voluto.
I personaggi sono interessanti, Lilia, la suora laica, mentore di Diana, è assolutamente originale e innovativa. Di lei l’autrice scrive – e Diana pensa:
La mia vera migliore amica. Quella che non si era mai sposata e sembrava felice lo stesso. Quella bella, che sarebbe arrivata a farsi incorniciare vergine e irraggiungibile nella lapide, e che pure aveva posseduto qualunque cosa avesse solo sfiorato i suoi obiettivi. Una grande donna.
Con una ricchezza di dettagli, di similitudini che mi hanno davvero deliziata (ho sottolineato talmente tanti passaggi che se dovessi trascriverli qui sarebbe come trascrivere almeno un quarto di libro!), Diana osserva il mondo che la circonda, dà voce ai suoi desideri e alle sue passioni. E accoglie i personaggi interagiscono con lei per ciò che sono, senza sollevarli dalle loro debolezze e dai loro pregi.
Khady, la sorella nei confronti della quale prova una frustrante gelosia (non si può detestare una creatura così delicata, gentile, perfetta); i genitori, che in poche pennellate assumo tratti indelebili (il padre assente, la madre impegnata, profondamente legata alle figlie);
gli amici, desiderosi di riscattarsi, ansiosi di vivere, teppisti (alcuni), bravi ragazzi (altri).
Filippo è l’oggetto del desiderio di Diana e Diana lo rappresenta nei suoi sogni, con vivida chiarezza, anche nel suo essere sbagliato (chissà se le darà mai quel bacio che sogna?). Filippo è colpevole e innocente. È disarmante, ma anche disarmato.
Filippo. Strano soggetto, Filippo. Il naso lungo, gli occhi blu come me. La mascella serrata, le vene del collo gonfie, quando mi diceva che stava per seppellire e bruciare il suo cane. E le mani, le belle mani larghe sulla chitarra, un attimo dopo. Ma quella era la seconda volta che, quasi, a sentirlo suonare, a me veniva voglia di cantare.
Sono talmente diversi, lui e Diana, che sembra non esista tra loro un solo punto di contatto, persino quando la loro amicizia si fa più salda, come se percorressero due strade diverse, non parallele ma opposte.
Sulla trama, non voglio dirvi nulla, per non rubarvi il piacere di immergervi in questa bella storia.
E un plauso, sì, ancora un altro, all’autrice.
Sullo sfondo di una Roma potente e bellissima, di un paese, Montedibacco, che sembra uscito da un libro di fiabe, attraverso una narrazione che sembra essa stessa una fiaba, fatta di uno stile complesso, quasi “antico” e d’altri tempi, e col sostegno di un ritmo che tiene sempre sulla corda, l’autrice ci conduce nel mondo emozionale di una sedicenne sulla soglia della maturità, nella sua caparbia ostinazione per affermare se stessa e le sue convinzioni, in una realtà che si plasma attorno a lei e che si fa culla per accoglierla.
Mi sei mancata.
Un brivido simile al getto bollente di una doccia sulla pelle ibernata di dicembre. Un brivido inconfessabile, demenziale gioia, ma rotto appena nato, da quella frase successiva.
Sei una brava ragazza. Messo lì apposta per contrappunto a una rivelazione tanto dolce, che quasi sembra passionale. Perché non la fraintendesse; o piuttosto perché non la si comprendesse troppo a fondo.
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