Notte e giorno dicevo nella testa le parole dei libri di mio padre. Le avevo tutte nella memoria, nessuno può rubare i pensieri senza peso, sottrarli nel sonno a chi li tiene stretti. Per Catena la notte è sempre stata un rifugio speciale. Un rifugio tra le braccia di suo padre, per disegnare insieme le costellazioni incastonate nel cielo, imparare i nomi delle stelle più lontane e delle erbe curative, leggere libri colmi di storie fantastiche. Ma da quando suo padre non c’è più, Catena ha imparato che la notte può anche fare paura e può nascondere ombre oscure. L’ombra delle mani della madre che la obbligano al duro lavoro nei campi e le impediscono di leggere, quella degli occhi gelidi e inquieti dello zio che la inseguono negli angoli più remoti della casa. Le sue sorelle sembrano non vederla più, ormai è la figlia imperfetta e il ricordo del calore dell’amore di suo padre non basta a riscaldare il gelo nelle ossa. Catena ha solo quindici anni quando decide che non vuole più avere paura. E l’ultima notte nella sua vecchia casa si colora del rosso della vendetta. Poi, la fuga nel bosco, dove cerca riparo con la sola compagnia dei suoi amati libri. È grazie a loro e agli insegnamenti del padre che Catena riesce a sopravvivere nella foresta. Ma nel suo rifugio, fatto di un cielo di foglie e di rami intrecciati, la ragazza non è ancora al sicuro. La stanno cercando e per salvarsi Catena deve ridisegnare la sua vita, la vita di una bambina che è dovuta crescere troppo in fretta, ma che può ancora amare di un amore forse imperfetto, ma forte come il vento.
Catena Dolce ha quindici anni, un padre che la ama, una madre che la ignora e due sorelle alle quali è legata. La vita è quella contadina di una Sicilia agli sgoccioli dell’ 800, spietata e priva di tenerezze che possano lenirne la durezza quotidiana.
Catena, però, non è incolta: dal padre impara a leggere i libri sui rimedi naturali della nonna Agata e quelli di astronomia, che le schiudono i segreti del cielo. E questo amore per la lettura la allontana inesorabilmente dalla madre, donna pratica e gretta, che prova diffidenza e fastidio per quel rapporto privilegiato che lega Catena al marito Giovanni. Quando questi muore, la situazione precipita. Una damnatio memoriae si consuma a casa e lo zio prende il posto del padre. Violento, anche con il figlio naturale, l’uomo abusa di Catena nella più completa indifferenza della madre, la quale ignora le grida e i lividi che sbocciano sul suo giovane corpo martoriato, finché la ragazza non consuma la propria vendetta, difendendo da sola la vita e l’onore che l’intimità della casa familiare avrebbe dovuto preservare. Macchiata ormai dalla colpa, “imperfetta” dunque, Catena fugge, nascondendosi come un animale ferito, e portando con sé gli amati libri del padre. Le competenze della nonna Agata nelle piante medicinali riescono a curare il suo corpo, ma non l’anima ferita. E quando altra violenza e altra barbarie le si schiantano addosso, Catena avverte il peso dell’ingiustizia e l’ineluttabilità delle cose. La sua vita non cambierà, ma il suo cuore può ancora restare puro. Così la morte che sembra inseguirla diventa un’alleata, mentre il colera si abbatte su Palermo e uccide uomini, donne e bambini, e preserva lei che non solo non si ammala, ma riesce a curare anche i moribondi. La voce si diffonde, circola nel paese che la accoglie, e per tutti diventa una “mavara”, una strega, temuta, ma tenuta a distanza, una puttana del diavolo. Necessaria, ma detestata anche da chi ha salvato.
L’imperfetta, finalista al prestigioso Premio Calvino per inediti e, successivamente, acquistato da Garzanti, è un romanzo di letteratura più che di narrativa, dove l’attenzione per la parola soverchia, a tratti, la narrazione stessa e alla lunga potrebbe indisporre il lettore. Tuttavia, la vera pecca che ha finito per rovinare la lettura è l’assenza di mimesi del linguaggio. Siamo sul finire del 1800, il Novecento non si è ancora affacciato, ma Catena pensa come un’eroina moderna, plasmata di letteratura. Non è un’analfabeta, d’accordo, ma il suo pensiero ricercato non è adatto a un’adolescente paesana di una Sicilia arcaica e maschilista. Il romanzo non avrebbe perso la sua bellezza se fosse stato ambientato in epoca più moderna, anzi. La decisione del periodo storico scelto, per introdurre la condizione femminile nelle carceri, la trovo stridente con il complesso della storia e del personaggio principale; i personaggi secondari, poi, brillano di luce riflessa, perché tutti sembrano parlare per bocca di Catena, utilizzando quasi le stesse parole. Soltanto il carabiniere si permette un “buttana”, che non fa altro che trasformarlo in macchietta, e contribuisce alla sensazione che ogni cosa cali dall’alto, che le figure siano pupi e l’autrice la pupara.
Resta, comunque, un bell’esordio quello di Carmela Scotti, un’autrice interessante e dalla cifra potente che spero di ritrovare presto in un testo maggiormente calibrato.
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