In un luogo fatto di polvere, dove ogni cosa ha un soprannome, dove il quartiere in cui sono nati e cresciuti è chiamato “la Fortezza”, Beatrice e Alfredo sono per tutti “i gemelli”. I due però non hanno in comune il sangue, ma qualcosa di più profondo. A legarli è un’amicizia ruvida come l’intonaco sbrecciato dei palazzi in cui abitano, nata quando erano bambini e sopravvissuta a tutto ciò che di oscuro la vita può regalare. Un’amicizia che cresce con loro fino a diventare un amore selvaggio, graffiante come vetro spezzato, delicato e luminoso come un girasole. Un amore nato nonostante tutto e tutti, nonostante loro stessi per primi. Ma alle soglie dei vent’anni, la voce di Beatrice è stanca e strozzata. E il cuore fragile di Alfredo ha perso i suoi colori. Perché tutto sta per cambiare.
Vi voglio raccontare come è andata.
Ho seguito l’onda.
Tutti parlavano di questo libro e io mi sono lasciata convincere dai commenti entusiasti, così l’ho comprato. Ho fatto, insomma, quello che avrebbe fatto una qualsiasi lettrice curiosa. E avevo intenzione di limitarmi a leggerlo, e poi chiuderlo, dimenticarlo, come faccio normalmente con qualsiasi libro. È successo qualcosa, però: ho provato una sensazione strana, la consapevolezza che io, questo libro, non lo volevo dimenticare. Così, eccomi qui, a raccontarvi le mie impressioni.
Non conosco Valentina D’Urbano, non ho letto la sua biografia, né la bibliografia, non sapevo nemmeno che questo romanzo fosse stato pubblicato nel 2013 – dove diavolo ero nel 2013? – per farla breve, non sapevo niente di niente.
Dovrei, pertanto, ammettere di aver semplicemente cavalcato l’onda di cui vi parlavo, ma nemmeno questo è vero. Perché un libro, non siamo davvero noi a sceglierlo; è lui che ci sceglie. E “Il rumore dei tuoi passi” mi ha scelta alla grande. Sarà stato quel brivido quando ho letto la quarta di copertina, o forse quella magia – una sorta di appartenenza – che mi ha sussurrato nell’orecchio mentre leggevo l’esergo, sarà stato un insieme di cose, ma di fatto sono bastati pochi passi del romanzo per conquistarmi e farmi capitolare. Di solito, infatti, devo sempre lasciar scorrere le prime pagine per entrare in contatto con l’autore, con la storia, con lo stile: non stavolta. Perché, a volte, ricordarci che i sogni vivono anche là dove non penseremmo mai di trovarli, è una straordinaria rivelazione.
“I gemelli, ci chiamavano. Dicevano che eravamo uguali, anche se non ci assomigliavamo per niente. Dicevano che a forza di stare insieme eravamo diventati identici, sputati, come due gocce d’acqua.”
È così che tutto inizia: con gemelli che non sono gemelli, ma che lo diventano a forza di stare insieme, quasi che l’essere così simili, così legati, sia un marchio, una targhetta di riconoscimento, di cui non potranno mai sbarazzarsi. E lo è: nemmeno la morte li solleva dal fardello di quella unione.
Sì, perché è di morte, che si parla: quella di Alfredo, e che lascia “buchi” ovunque. Mi vien da scrivere buchi, perché in luoghi come quello in cui sono cresciuti Beatrice e Alfredo non c’è spazio per la poesia, per le belle parole; nelle periferie in cui si tocca con mano il degrado, anche quelle hanno tutt’altro peso: sono semplici, crude, taglienti. Le parole nascondono bene l’amore e hanno una potenza tale da lasciarti sanguinante.
Questo è quello che mi ha lasciato questa storia: una ferita. Badate bene, però: alla fine, tutte le ferite si cicatrizzano e il dolore diventa ricordo. Intanto, però, quel dolore lo si vive, e che tinta ha! Se ci guardiamo intorno, quello che accade alla Fortezza succede ovunque, in ogni periferia chiacchierata e abbandonata, lì, dove si combatte per le piccole cose, dove si occupa un alloggio abusivamente e si cerca, semplicemente, di sopravvivere. Si nasce, nelle periferie, si cresce, e se sei fortunato hai poco, ma puoi aiutare gli altri, come fa la famiglia di Bea; ma se ti gira male, ragazzi, non c’è salvezza. Violenza, abusi, assenza totale di giustizia –che non può o non vuole intervenire. Come succede a Alfredo e ai suoi fratelli, succubi di un padre che vuole solo ammazzarli quando se li ritrova davanti agli occhi.
È nella sua “Fortezza” che Bea vede, sente e vive; Bea che ha soltanto il necessario (una casa abusiva; una madre, un padre e un fratello, per fortuna sereni) e con quel poco può sentirsi libera; Bea che, soprattutto, vuole essere padrona dell’amore di Alfredo. Perché Alfredo glielo deve: le deve tutto. Lei lo ha consolato, accolto, amato e odiato. E, poi, amato ancora. Lei che gli ha dedicato i suoi anni, i suoi pensieri, e un futuro senza speranza. Lei che non ha mai detto ti amo, e che se lo sente dire quando ormai è troppo tardi. Alfredo è delicato, è docile. Bea pretende tutto e gioca con lui, vuole ferirlo, ma non ci riesce, perché ferire lui significa ferire se stessa. Perché Alfredo e Bea sono “i gemelli”.
L’autrice descrive la periferia, il degrado, la discesa all’inferno dei due protagonisti con una delicatezza che fa venire i brividi. Di storie come questa chissà quante ce ne sono intorno a noi. Storie che non ci sogneremo mai di conoscere, di guardare. È forse questo il pregio assoluto della penna di Valentina D’Urbano: riuscire a trasmettere un sentimento di amore così potente, lì dove non ti sogneresti mai di cercarlo. È una storia di ultimi, di disperati. E forse di una luce di speranza. È una storia d’amore meravigliosa che va oltre le regole e che ci insegna, una volta di più, che la vita non va giudicata, ma vissuta fino in fondo. E io non credo che riuscirò a dimenticarla.
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